Fonte foto: Ocha

Non è passato molto tempo da quel 2 novembre in cui il governo etiope e il TPLF (Fronte Popolare di Liberazione del Tigray) firmarono un accordo per porre fine al genocidio iniziato due anni prima, il 4 novembre del 2020. L’accordo includeva il ritiro di tutte le forze straniere dal nord del Paese e, dunque, anche dei soldati eritrei, che si erano uniti al conflitto al fianco dell’Etiopia.

Nell’accordo si parlava di disarmo, di cessazione delle ostilità e fine delle propaganda, di accesso agli aiuti umanitari nel territorio del Tigray, di ricostruzione da parte di Addis Abeba delle infrastrutture danneggiate nella regione, di rinuncia del Tplf all’indipendenza del Tigray e di reintegrazione del governo autonomo regionale in quello centrale etiope.
Eppure, nonostante Getachew Reda (colui tra le più importanti autorità del Fronte di liberazione popolare del Tigray) e Redwan Hussien (braccio destro del presidente etiope Abiy Ahmed Ali), si siano stretti la mano e abbiano firmato un documento di pace storico, ad oggi sembra che l’accordo sia stato violato. Continuano ad arrivare segnalazioni dal territorio sulla presenza di alcune unità dell’esercito eritreo, accusandolo di aver commesso gravi violazioni dei diritti umani.

La Cnn riporta la testimonianza di alcuni operatori umanitari che raccontano di essere stati bloccati all’ingresso di un villaggio la scorsa settimana: “Il 25 maggio 2023, a una missione guidata dal vice capo dell’Etiopia dell’UNOCHA composto da UNOCHA, UNDSS, OMS e altre ong è stato vietato di entrare nel villaggio di Gemhalo, nel distretto di Tahtay Adiyabo woreda, dalle forze eritree. La missione è stata interrotta dopo aver percorso 16 km da Sheraro, intorno a Waela-Nihbi. Le forze eritree sono nel Tigray a breve distanza da Sheraro e occupano cinque kebeles [quartieri, ndr] di Tahtay-Adiyabo woreda [distretto, ndr]”. Gli operatori umanitari hanno poi segnalato ancora violenze nel Tigray: “Continuano i saccheggi, le distruzioni di infrastrutture, stupri. Le forze eritree stanno commettendo ogni forma di violazione nei villaggi, compresa la negazione dell’accesso umanitario a quelle aree”.

La guerra continua a fare il suo corso silenziosamente, e anche Linda Thomas-Greenfield (ambasciatrice degli Stati Uniti alle Nazioni Unite) in una conferenza stampa a Nairobi ha dichiarato che le truppe eritree erano ancora in Etiopia, contraddicendo le autorità di Addis Abeba.

Nonostante i pericoli per le persone del Tigray nel Paese, gli abitanti non si arrendono.
Migliaia di persone sono scese nelle strade di Mekelle, Adigrat, Adwa, Axum, Tembiyen e Shire per chiedere il ritorno degli sfollati e il ritiro delle forze “esterne” dalla regione dell’Etiopia. Le manifestazioni hanno stupito Addis Abeba e la comunità internazionale poiché sono state improvvise e nessuno se l’aspettava. Le manifestazioni popolari avevano un obiettivo diverso, ovvero protestare sulla decisione del governo del Paese africano di integrare le forze di difesa locali nella polizia e nell’esercito nazionale.

L’accordo di pace, dunque, sembrerebbe essere violato in quanto gli aiuti umanitari sono stati respinti, ma c’è anche chi questo accordo di pace non l’ha mai visto di buon occhio. A parlarne con noi di Tell è una donna che preferisce mantenere l’anonimato per evitare ripercussioni sui suoi familiari che si trovano nel Tigray: “Siamo in molti a non credere in questo accordo di pace. Non ci abbiamo creduto neanche quando lo hanno firmato”, dice con determinazione. “Non si può firmare un accordo di pace mentre si continua a bombardare il Paese. Il governo eritreo dice che non c’entra nulla, e ha negato qualsiasi coinvolgimento in atrocità, ma non è vero: le truppe eritree sono ancora nel Tigray a seminare terrore”, aggiunge.

La donna prosegue parlando delle violenze e di atti disumani nei confronti delle donne: “Le hanno violentate e torturate con lo scopo di umiliarle e di privarle della loro dignità. Tra le vittime di stupri ci sono anche bambine, donne anziane. Non si fanno scrupoli. Le torturano inserendo nella vagina chiodi, metallo, bruciano con il ferro bollente le loro parti intime”, racconta con dolore. Poi il disperato appello di giustizia: “Siamo stanchi di non essere considerati. Noi esistiamo! Con l’Ucraina si è smosso il mondo, hanno avuto solidarietà e affetto da parte di molte persone, e noi? Siamo da scartare? Osservare senza dar voce significa insabbiare ancora di più le ingiustizie nel Tigray”.

La donna, che vive in Italia, si dilunga parlando di una misura che non si sarebbe mai aspettata dal Paese dove vive: “182 milioni di euro siglati tra la Presidente Giorgia Meloni e il Primo Ministro etiope, portando le iniziative di sviluppo finanziate dall’Italia in Etiopia nelle ultime settimane a 200 milioni di euro. Ci rendiamo conto? Le persone nel Tigray stanno morendo, sono senza acqua, senza cibo, senza lavoro, senza una coperta, un letto, alcuni senza un tetto sulla testa e si pensa a firmare accordi con il governo etiope che ha dato inizio a questo genocidio? Come se non bastasse la Meloni si è recata in Etiopia…in Etiopia, e non nel Tigray. Ma a chi dobbiamo chiedere aiuto per essere ascoltati? A chi dobbiamo appellarci se chi ha il potere di cambiare le cose si gira dall’altro lato?”. Si legge nei suoi occhi la sofferenza e la preoccupazione per i suoi familiari che si trovano nel Tigray e che sente poco a causa della scarsa linea telefonica: “Per tutto il periodo della guerra è stato negato l’accesso ad internet e all’energia elettrica, tuttora la linea non funziona molto bene, è molto scarsa ma al di fuori. Ad Addis Abeba, ad esempio, la linea funziona”, aggiunge, volendo così sottolineare ancora di più come il Tigray venga “punito”.

“Questa guerra è una guerra basata sull’appartenenza etnica. Loro ci odiano. Io sono fiera di essere del Tigray, orgogliosa. Non devo vergognarmi di ciò che sono! Vogliamo giustizia, il governo etiope e quello eritreo devono essere condannati, portati davanti alla corte costituzionale per le ingiustizie che hanno compiuto nei confronti dei miei compaesani. Siate coerenti, se ripudiate la guerra e ogni forma di violenza, non dovreste fare distinzioni. Non siate ipocriti. Pregate anche per il Tigray, per i bambini ai quali è stata rubata l’infanzia, per le donne, poiché il motto “donna, vita, libertà” deve valere anche per loro, pregate per i miei compaesani morti per la fame o per l’assenza di medicinali, e per i miei compaesani morti per la loro libertà”.

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