Le tensioni in Kenya sono iniziati il 6 giugno, con l’uccisione dell’insegnante e blogger di 31 anni Albert Ojwang, morto mentre era in stato di detenzione presso la stazione centrale di Polizia di Nairobi. L’uomo era stato arrestato dopo aver criticato l’operato del vicecapo della polizia, Eliud Lagat, ed era stato condotto nella cella da dove nella notte, secondo alcuni testimoni, era stato prelevato violentemente. In base ai risultati dell’autopsia, il blogger ha perso la vita mentre era sotto tortura, un esito che ha smentito la ricostruzione del capo della polizia, Douglas Kanjia, che aveva parlato di suicidio.

La morte di Ojwanf ha dato il via alle mobilitazioni antigovernative che vanno avanti da circa un mese e ha riacceso il dibattito sulla questione degli abusi delle forze dell’ordine in Kenya.

Ieri ci sono state nuove proteste e almeno 11 manifestanti hanno perso la vita e altri 567 sono stati arrestati. Altri sedici persone erano state uccise nelle manifestazioni precedenti e oltre 40 ne erano state ferite. La polizia ha usato cannoni ad acqua e gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti, e secondo diverse testimonianze avrebbe anche sparato contro di loro.

La Commissione nazionale keniota per i diritti umani (Knchr) ha comunicato in un ultimo aggiornamento di “aver documentato 31 morti, 107 feriti, 2 casi di rapimento e 532 arresti in 17 contee” nelle ultime manifestazioni del 7 luglio.


In una precedente nota per la stampa aveva poi riferito della presenza durante le proteste di “bande criminali che brandivano armi rudimentali, tra cui fruste, machete, lance, archi e frecce”. Ha poi aggiunto che nella capitale Nairobi “queste bande incappucciate sono state viste operare a fianco degli agenti di polizia”.

 

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