“Mi hanno fatto uscire dicendomi che ero libera, che potevo fare ciò che volevo”. Carla ha lasciato circa un mese fa l’ospedale dove ha dato vita al suo secondogenito, dimessa a distanza di tre giorni dall’accertamento della positività al Sars-Cov2 sulla mamma che era ricoverata nella sua stessa camera nel reparto di ginecologia del Secondo Policlinico di Napoli. Carla era ciò che viene definito un “contatto stretto”, si era trovata per giorni in un ambiente chiuso con una positiva, quindi obbligata ad osservare un periodo di quarantena. “Ma non mi è stato mai notificato nulla”, dice. Solo la sua accortezza e il suo senso civico hanno impedito che il contagio si diffondesse. All’indomani delle dimissioni, infatti, sarebbe arrivata la notizia della sua positività al virus.

Durante la degenza, la donna in stanza con lei inizia a manifestare i sintomi tipici del Covid: tosse, febbre, spossatezza. Scoperta la positività, la trasferiscono nel reparto Covid allestito al piano superiore e sottopongono Carla a un test molecolare. “Io ho scoperto per caso la positività della persona con cui condividevo la stanza. Il mio compagno quel giorno doveva portarmi delle cose, mi hanno bloccato mentre stavo aprendo la porta del reparto e mi hanno impedito di uscire”, racconta Carla, nome di fantasia che abbiamo attribuito alla nostra fonte.

Arriva l’esito negativo del suo tampone e dopo due giorni i medici dispongono che Carla può tornare a casa con il suo piccolo. “In quei due giorni in ospedale, dopo il tampone negativo, avrei potuto circolare liberamente, andare a prendere il caffé ai distributori automatici, nessuno mi avrebbe bloccato. Ma sapevo che ero ancora nel periodo di incubazione e che potevo diventare un pericolo per gli altri”, racconta. Carla quindi decide di trincerarsi comunque nella sua stanza di ospedale e, una volta a casa, si isola in una camera con il suo bambino appena nato, anche lui negativo.

“Non so se qualcun’ altro si sarebbe comportato come me”, racconta oggi, in attesa del risultato del suo terzo tampone. “Potevo tornare a casa e abbracciare l’altro mio bambino, il mio compagno, potevo andare a fare la spesa. Ma mi sono chiusa dentro e il giorno successivo ho ripetuto il tampone”. Il tampone, eseguito privatamente, risulterà positivo al virus.

Oggi Carla sta bene, racconta le sue disavventure con il Covid-19 dalla stanza in cui è isolata nella sua abitazione da quasi 1 mese. “Il servizio a domicilio per i tamponi funziona bene, ho invece avuto problemi con l’ospedale e l’Asl”, afferma. L’Asl Napoli 3 Sud, di competenza sul suo territorio, non l’ha ancora contattata per conoscere i contatti stretti, per i quali sarebbe dovuta scattare la quarantena obbligatoria. “Il medico di base mi ha detto che dovevo comunicarli all’Asl, ma fino ad ora non mi ha chiamato nessuno. Mi telefonarono dopo una settimana dal tampone positivo, ma prima mi sottoposero svariate domande poi mi dissero che c’era un errore nel domicilio, che mi stavano chiamando dall’Asl 1 e che avrei dovuto attendere la telefonata dall’Asl del mio territorio, che non è mai arrivata”. A ciò si aggiunge che al suo bambino appena nato non è stato mai ripetuto il tampone, quindi non si sa se è mai stato positivo, se lo è ancora, se si è negativizzato: “Il nido dell’ospedale si è dimostrato disponibile, ma la mia positività ci ha impedito di spostarci per eseguire i controlli”, riferisce Carla.

“In tutta questa storia quello che mi è dispiaciuto constatare è stata la mancanza di buon senso da parte del personale sanitario che mi ha dimesso. È vero che con il tampone negativo potevo uscire, ma non è possibile dire a una degente che è stata a contatto per giorni con una positiva che può fare ciò che vuole. Io sono responsabile, informata, ma non tutti sono come me”, commenta. Carla ha dato incarico a un avvocato di valutare se ci sono le condizioni per intraprendere un’azione legale.

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