In carcere in Italia dal 29 gennaio 2024 con l’accusa di terrorismo internazionale, rischia ora l’estradizione in Israele nonostante i comitati e gli avvocati che si battono per la sua liberazione considerino illegale la richiesta inoltrata al ministero della Giustizia. Anan Yaeesh è un palestinese di 37 anni, dal 2017 in Italia con regolare permesso di soggiorno e per anni impiegato nel campo dell’edilizia. Nato e cresciuto in Cisgiordania proprio nel campo profughi di Tulkarem – dal quale dopo l’ultima operazione militare dell’esercito israeliano sono fuggite tra le 50 e le 100.000 persone su circa 210.000 abitanti totali – Anan è attualmente rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Terni dopo essere stato arrestato nella sua abitazione a L’Aquila.
Israele ne chiede l’estradizione perché avrebbe fatto parte di un gruppo pronto ad attaccare dei coloni proprio nei pressi di Tulkarem. Per lui l’accusa del tribunale de L’Aquila è appunto quella di terrorismo internazionale. Alla Mensa Occupata di via Mezzocannone a Napoli, nel corso di un’iniziativa organizzata dal Centro Culturale Handala Ali e partecipata da diverse realtà che sostengono la liberazione della Palestina, i comitati hanno ricordato la storia di Anan Yaesh, ma anche di altre figure come Alì Irar e Mansour Doghmosh, anch’essi incarcerati in Italia con simili accuse rispettivamente nelle carceri di Ferrara e Rossano Calabro.

La campagna per la liberazione di Anan
Secondo l’Unione democratica arabo-palestinese, “l’estradizione richiesta da Israele va contro il diritto internazionale. Anan è un cittadino di un territorio occupato che sarebbe consegnato a un occupante. Sapevamo della illegittimità dell’estradizione, ma nonostante questo Anan continua a essere in carcere a Terni nel reparto di massima sicurezza, dato che è considerato un terrorista’’, al pari di altri due cittadini palestinesi in Italia, appunto Alì Irar e Mansour Doghmosh, poi liberati ad agosto 2024.
Tra le altre cose, Doghmosh dopo la scarcerazione è stato trasferito momentaneamente in un Cpr, esperienza giudicata dal diretto interessato alquanto proibitiva viste le condizioni di questi centri. Dall’Udap aggiungono: “Inizialmente sui giornali italiani è uscita la notizia che Anan stesse organizzando un attentato terroristico in Italia da L’Aquila, notizia invece risultata non veritiera. È stata perciò chiesta un’attenuazione della carcerazione, ma è stata negata’’.
La questione non è solo politica, vista la partecipazione alla resistenza palestinese da parte di Anan nel corso della seconda Intifada, ma anche giuridica. “Anan – spiegano ancora dall’Unione democratica arabo-palestinese – è accusato di aver organizzato un’operazione a una colonia vicina a Tulkarem. Per il diritto internazionale è chiaro che si tratta di resistenza contro una colonia illegale, considerata tale persino dall’entità sionista. Vogliamo un processo normale, qui in Italia cosa che sino ad ora è mancata. Se ci fosse stata equità nel trattare il caso, questa storia sarebbe già chiusa’’.
Invece prosegue e, concludono dall’ Udap, “sono state negate le testimonianze che avrebbero potuto aiutare Anan. Gli unici ammessi come testimoni sono stati sino ad ora la moglie di Mansour Doghmosh, una ragazza di Napoli che è stata in Cisgiordania subendo anche la violenza dei coloni e due consulenti’’. Il processo si è aperto lo scorso 2 aprile. Le prossime udienze sono previste per il 7 e il 21 maggio. Gli avvocati e i movimenti che supportano la battaglia per la liberazione di Anan, temono saranno interlocutorie.
Il profilo di Anan
Anan, come detto, è nato e cresciuto nel campo profughi di Tulkarem. Un evento specifico determinerà la sua scelta di far parte della resistenza palestinese nel corso della seconda Intifada: dinanzi ai suoi occhi viene uccisa una sua amica di 12 anni. Da lì, la scelta di far parte delle brigate di resistenza dei martiri di Al Aqsa (che l’Ue, Usa e Israele considerano organizzazione terroristica). In seguito, nel 2006, Anan viene ferito dalle forze speciali israeliane e detenuto in condizioni proibitive nelle carceri israeliane prima di essere liberato insieme ad altri detenuti palestinesi in cambio del ritorno a casa del soldato israeliano Gilat Shalit nel 2011.
Perseguitato ancora da Israele, Anan Yaeesh lascia la Palestina nel 2013 stabilendosi prima in Nord Europa e poi in Italia nel 2017, ottenendo nel 2019 un regolare permesso di soggiorno. Nel 2023 si reca in Giordania. Lì viene rapito dai servizi di sicurezza con il probabile obiettivo di consegnarlo a Israele. Concluso un periodo di carcerazione di 6 mesi nelle carceri giordane, grazie anche alla spinta dell’opinione pubblica Yaesh viene liberato e torna in Italia dove viene arrestato il 29 gennaio 2024.
L’attività di Samidoun Paris Banlieue
A sostenere i detenuti politici in Palestina e in altri Paesi del Medioriente e del Nord Africa c’è l’organizzazione Samidoun Paris Banlieue. Tra i casi più famosi seguiti dalla rete, discusso anche durante l’iniziativa della Mensa Occupata di Napoli, c’è quello di Georges Abdallah, un comunista libanese detenuto in Francia dal 1984 e condannato all’ergastolo nel 1987 perché accusato di essere coinvolto negli omicidi dell’addetto militare Usa Charles Robert Ray e del diplomatico israeliano Yacov Barsimantov avvenuti nel 1982.
Da tempo Samidoun si batte per la liberazione di Abdallah, che per il diritto francese poteva essere concessa la libertà già dal 1999 avendo scontato il minimo della pena. Sino ad ora, però tutte le domande di libertà condizionale sono state rifiutate dai tribunali francesi. Da Samidoun sottolineano come oggi Georges Abdallah sia “riconosciuto come prigioniero politico per la sua lotta di solidarietà per il popolo palestinese. Non si può lottare in Palestina se non si tiene in considerazione la lotta che si fa anche in carcere, visto l’alto numero dei detenuti per ragioni politiche. Oggi il carcere ha una grande importanza per la vita dei palestinesi. Non c’è nessuna famiglia che non abbia un parente o una conoscente in carcere per l’attività coloniale e l’Apartheid di Israele in Palestina’’.
Tra le altre battaglie portate avanti da Samidoun, anche quella per la liberazione di personaggi come Shatelah Abu Ayad, Ahmad Saadat, Walid Daqqah , Nael barghouti. A preoccupare la rete, nata proprio per sostenere i prigionieri in Palestina, “è la censura rispetto al tema delle carcerazioni’’. A detta degli attivisti di Samidoun, “c’è una continuità coloniale sia in Palestina che nei nostri Paesi occidentali. In Francia il potere attacca soprattutto le persone che prima vivevano nei Paesi colonizzati. Se si tiene presente questo, si può capire perché esista l’islamofobia. Esistono tanti detenuti che provengono dai Paesi coloniali, anche il carcere alimenta questo sistema coloniale e questo ci fa pensare che i prigionieri in Francia siano prigionieri politici’’.
I dati sulle carcerazioni
Dal centro culturale Handala Ali ricordano: “Attualmente sono circa 9.900 le detenute e i detenuti nelle carceri dell’occupazione, di cui quasi 3.500 in regime di detenzione amministrativa, senza accusa né processo. Il carcere, in quanto strumento repressivo, mira ad isolare e spaccare la resistenza, oltre che a sperimentare nuove tecnologie di controllo tali da rendere le prigioni un microcosmo del più ampio sistema di segregazione delle terre palestinesi’’. Poi l’aggiunta. “I paesi Occidentali rivestono un ruolo di primo piano nell’alimentare questo sistema repressivo attraverso l’introduzione di espedienti legali come il Dl ex 1660 che in Italia criminalizza – fra gli altri– i palestinesi e la solidarietà nei confronti della loro lotta; o come gli arresti arbitrari nei confronti dei palestinesi in diaspora come il caso di Mahmood Khalil negli Usa e di Anan, Ali e Mansour in Italia’’.