A inizio turno preparano il necessario nella zona “pulita”, poi indossano la tuta e entrano nell’area Covid. E così, bardati, lavorano per giornate di lavoro spesso più lunghe dei turni in programma. Dall’inizio della pandemia chi opera negli ospedali e nei reparti Covid non ha trovato un attimo di respiro, se non un minimo nel periodo estivo. Con l’aumento dei contagi delle ultime settimane, gli ospedali stanno collassando di nuovo. Gli operatori sanitari che lavorano in trincea sono al limite delle energie, ma resistono per affrontare la terza ondata.

Ornella (il nome è di fantasia), 30 anni, è uno dei tanti giovani che hanno iniziato a lavorare negli ospedali italiani per far fronte all’emergenza epidemiologica da Covid-19. Assunta un anno fa a tempo determinato come operatrice socio-sanitaria dall’azienda ospedaliera dei Colli di Napoli, oggi lavora nel reparto di terapia subintentiva dell’ospedale Cotugno, polo infettivologico della Campania. Ornella aveva partecipato a un concorso due anni prima di essere catapultata nella bolgia di un presidio Covid, e ora si trova ad affrontare come oss la terza ondata della pandemia.

“Per me questa è ancora la seconda ondata”, dice. Perché da ottobre per lei i ritmi di lavoro non sono mai cambiati. “Da ottobre non ci siamo mai fermati – racconta -. È vero che ora sentiamo una pressione maggiore, ma per noi la seconda ondata non è mai finita. È più pesante di quella dell’anno scorso. Rispetto a un anno fa, forse pure per la stanchezza psicofisica, stiamo combattendo contro qualcosa che è più grande di noi”.

“All’inizio – rivela – mi sentivo un’eroina, mi sentivo privilegiata, per come ci descrivevano. Ora non è più così, perché vedo il menefreghismo delle persone”. Ornella si riferisce a chi continua a sottovalutare il problema Covid, non indossando la mascherina, continuando ad assembrarsi. E parla della “rabbia” che prova nell’osservare gli affollamenti per gli aperitivi in piena pandemia mentre negli ospedali continuano ad arrivare pazienti contagiati dal Sars-Cov2. Nel suo reparto nell’ultimo periodo sono aumentati i giovani. “Ora ci sono anche molti giovani di 20-30 anni che vengono intubati e a cui viene messo il casco”, racconta.

Gli ospedali Covid in Campania sono in sofferenza, come in altre regioni italiane dove il contagio si sta diffondendo rapidamente a causa delle varianti. Al Cotugno, come si riporta da giorni sui giornali, i reparti sono pieni. Non fanno in tempo a liberarsi posti che subito vengono occupati.  “L’ospedale è saturo. Venerdì si era liberata una stanza in subintensiva, perché purtroppo una donna è stata intubata mentre un’altra è andata via perché guarita, e ieri subito è stata occupata. Negli altri reparti i posti sono sempre molto pochi”, svela Ornella.

“Noi facciamo tutto di corsa – racconta -. Io sto sempre accelerata. Viviamo con la tensione addosso, perché quando tutto sembra tranquillo da un momento all’altro può succedere che qualcuno sta desaturando e deve essere intubato. Si vive nell’ansia continua in questa frenesia. È un’angoscia incessante. Dopo un anno mi sento psicologicamente molto provata, con attacchi di ansia, perché purtroppo non si riesce a separare la vita privata dal lavoro”.

Ornella, però, dice di sentirsi fortunata a lavorare in un ospedale di eccellenza come il Cotugno e in un ambiente giovane. “Alla fine si crea una famiglia – racconta – , e questo ci aiuta tanto, perché a lavoro ci vai con un altro spirito. Per fortuna siamo tutti giovani, anche il caposala, i medici. Fuori, quando ci togliamo la tuta, ci viviamo quel momento di felicità”.  Tolta la tuta, a fine turno, si riescono a distendere con la musica: “Forse la canzone che più ci rispecchia in questo momento è quella di Sanremo, ‘Musica leggerissima’. Credo che quella sia diventata un po’ la colonna sonora di tutti noi, perché dà quel senso di leggerezza che ci manca. Ci dà molta carica, energia e un po’ di serenità. La musica aiuta tantissimo, anche nel reparto”.

I turni di lavoro sono estenuanti. Ci sono giorni in cui si lavora anche fino a 12-13 ore. “Con lo straordinario la giornata lunga è di 13 ore, quindi stai 13 ore in ospedale, nello stesso reparto, con gli stessi pazienti. Un turno normale è di 7-8 ore, e molte volte non vai via in orario, ti fai anche l’oretta di ritardo, che regali all’azienda senza che nessuno ti obbliga a farlo. Però, o 7 ore o 13 ore, sono lunghe. Poi con la tuta”.

E nel reparto, in queste condizioni, diventa impossibile non stabilire un legame anche con i pazienti. “Finiamo per affezionarci ai pazienti – spiega Ornella -, poi se non ce la fanno ci stiamo male prima noi. Noi, in quel momento, siamo la loro famiglia. Se a qualcuno manca il pigiama magari glielo andiamo a comprare, e lo facciamo come se fossero nostri parenti. Infatti ci fanno tanti regali, veniamo coccolati anche da loro. Abbiamo avuto per un mesetto un ragazzo di 22 anni con il casco, io mi sento ancora con lui. Un’altra signora che è guarita, era stata con noi a ottobre, tuttora mi contatta. Diventiamo talmente la loro famiglia che a un certo punto dicono che gli manchiamo. Noi diventiamo quella finestra con il mondo esterno che loro in quel momento non possono avere”.

“Ti trovi a vivere delle situazioni a livello umano veramente più grandi di te – riflette Ornella – e ti chiedi: ma veramente io nel mio piccolo sono in grado di dare gioia a delle persone, anche se purtroppo finisce che muoiono?”. “Noi – conclude – non ci vogliamo sentire eroi. Vorremmo solo un po’ più di rispetto, anche nei confronti dei nostri pazienti”.

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