Attività commerciali mandate avanti in palese sottorganico, con il numero dei lavoratori in certi casi talmente esiguo da costringere il personale a turni lunghi e massacranti. In nome di una ripresa post lockdown, questo trend è simile per molte piccole e medie imprese anche a Napoli: dall’abbigliamento alla ristorazione.

Il vuoto può essere così ampio che addirittura in via Toledo, principale strada dello shopping di Napoli, di recente è comparso sulla vetrata di un negozio di articoli sanitari un avviso: “Chiuso per carenza di personale’’. I titolari poi diranno: “Il nostro personale è stato in malattia causa Covid, ma l’attività continuerà”. La pandemia sembra dunque spiegare tutto della questione, in realtà il fenomeno è ben più profondo: stipendi sovente troppo bassi – non connaturati alle responsabilità e agli orari di lavoro sostenuti –  e tutele contrattuali totalmente assenti con i dipendenti trasformati in automi.

Le testimonianze dei lavoratori

Il tormentone è quello del reddito di cittadinanza come strumento di disincentivazione alla ricerca di un lavoro. Giuseppe, dipendente di un outlet del centro città ragiona e dice: “Legherei l’accesso al reddito di cittadinanza alla possibilità, per chi lo percepisce, di essere assunto. Con vere tutele, però. Le responsabilità dei lavoratori sono troppe e le ore di lavoro tante. I pagamenti, al contrario, non sono all’altezza di altre nazioni europee. Bisogna assumere, ma a certe condizioni anche abbassare il costo del lavoro per i datori”.

A Napoli, al Sud, il lavoro è più simile a una giungla, e non certo solo a causa degli effetti della misura di sostegno economico voluta dal Movimento 5 Stelle al governo. Ne è l’ennesima riprova il racconto di due ragazzi, D. e E., che da anni lavorano all’interno dei locali di ristorazione e bar tra i più rinomati e frequentati del centro storico di Napoli, dove la movida è più spinta.

“Da un anno mi occupo della gestione di un nuovo locale dopo una precedente esperienza in un’altra attività. Il mio turno è di 8 ore. Preparo caffè, cocktail, servo ai tavoli, faccio pulizia. Non mi fermo mai, dovrei avere il dono dell’ubiquità, che però ancora non posseggo. Tutto questo per 60 euro a giornata” racconta D. . Il lavoratore continua: “Nel precedente locale, all’inizio lavoravo completamente a nero per 40 euro più le mance (pochi euro in più), e spesso le 8 ore diventavano anche 10, ovviamente senza retribuzione aggiuntiva. Successivamente ho firmato dei contratti che duravano un mese o due, ma soltanto nei periodi in cui si lavorava di più, come quello natalizio o estivo. Quando poi ho avuto il contratto a tempo indeterminato part-time di 20 ore settimanali la paga andava sempre a giorni rispetto ai giorni di lavoro”.

L’aver ottenuto un ruolo di maggior responsabilità nel secondo locale sembrava per D. la svolta della sua vita professionale. “L’avevo vista come un’opportunità. Quella però non era una vera e propria gestione perché in ogni caso i proprietari, che in città non ci sono mai, mi dicevano sempre cosa fare. Dopo varie discussioni sono andato in tilt, non ce la facevo più a gestire gli ordini e l’andamento quotidiano. La promessa dell’affiancamento di una persona non è mai stata mantenuta e ora sono allo stremo”. D. conclude: “Spero di avere in futuro un locale mio ma sicuramente non tratterò i miei dipendenti come sono stato trattato io nel tempo”.

La testimonianza di E., anche lei giovane lavoratrice di un locale del centro storico, è ancora più emblematica. “Io ho aperto un capitolo diverso sulle malattie a lavoro in questi locali del centro storico di Napoli. Sconto problemi particolari di salute, sono una invalida civile e i datori hanno avuto paura della mia situazione concedendomi delle malattie inventate: ovvero 50%, 20% di giorni di malattia. Prima le malattie non esistevano: se eri malato perdevi giorni di lavoro e quindi i soldi”. E. poi racconta: “Era stato stabilito un accordo: io avrei lavorato in cucina assemblando le pietanze, affiancata da un lavapiatti, poi mandato via perché è stato detto che gli incassi non erano sufficienti. Mi è stato quindi riferito che potevo farcela da sola”. In realtà la patologia di E. ha poi presentato il conto qualche mese fa, smentendo la convinzione dei proprietari. “Ho avuto problemi di tachicardia e dispnea, sono andata in ospedale per un eccesso di adrenalina. I medici si sono raccomandati un periodo di riposto e per una settimana così ho fatto: quei giorni non mi sono mai stati pagati. I proprietari del locale – continua E. – si sono inventati delle malattie fasulle e i soldi detratti dalla busta paga. Dopo essermi lamentata mi hanno dato un’aggiunta al mio compenso canonico, il mio è stato il primo e forse l’unico caso in decenni di attività del locale. In ogni caso sei sottoposto a un ricatto”.

Nemmeno il Covid ha fermato la volontà di proseguire gli affari e recuperare quanto non guadagnato a causa delle restrizioni. “Alcuni nostri colleghi – svela E. – hanno avuto il Covid, i gestori però hanno nascosto agli altri dello staff le positività per continuare a stare aperti e incassare. Quando l’abbiamo scoperto e fatto i tamponi, ci hanno messo in malattia però solo 4 o 5 giorni rispetto ai 10 previsti, e all’80% della paga giornaliera, che per me era di 45 euro».

Non dissimile la testimonianza, anonima, di alcuni commessi di un negozio sempre nel centro città. “I nostri turni di lavoro sono di 8 ore e mezza. Si comincia alle 9.30 e si finisce attorno alle 20 con uno stacco per pranzo. E a questo regime d’orario è sottoposto non solo chi è entrato da poco ma anche chi ha anni di esperienza”. La paga? “Dai 600 ai 900 euro al mese con un contratto part-time. Le giornate di lavoro vanno dal lunedì al sabato, con una mezza giornata di riposo settimanale”.

Le associazioni di categoria

Dall’altra parte della barricata, il presidente della Confesercenti Campania, Vincenzo Schiavo – che rappresenta nella regione circa 560.000 imprese – dà la sua versione sulla mancanza di personale, cuore di quest’approfondimento. “La difficoltà di assumere personale si ricollega a misure di agevolazioni come il reddito di cittadinanza, che ha messo in condizioni molti a accettare una proposta. Invece che andare a lavoro per 1200-1300-1400 euro, c’è chi preferisce cogliere l’opportunità di rimanere a casa avendo 700-800 euro al mese. Noi di Confesercenti – afferma Schiavo – abbiamo chiesto di spostare questo contributo del reddito di cittadinanza su un contributo alle imprese obbligandole ad assumere dando dignità al lavoratore. Le imprese guadagnano poco perché i consumatori hanno pochi soldi – il prodotto pro-capite di una persona è di 16-18.000 euro mentre in Lombardia è tra i 32 e i 39.000 euro”.

C’è poi tutto il tema dei controlli sul rispetto delle tutele lavorative e contrattuali. Ancora il presidente di Confesercenti: “I controlli ci sono. Confesercenti ha sottoscritto con i sindacati accordi che dovrebbero essere rispettati. La base c’è, ma molti imprenditori – la tesi di Schiavo – non riescono a rispettare quegli accordi perché hanno grandi difficoltà. Ci sono 2 anni (per la pandemia, ndr.) di mancato fatturato e contratto migliaia di debiti con le banche. In Campania abbiamo 418.000 imprese che hanno contratto un debito di circa 180.000 euro con le banche”.

Reddito di cittadinanza, scarsi contributi alle imprese, difficoltà economiche generali non sono le uniche spiegazioni all’attuale andazzo. C’è anche qualcos’altro, secondo Rosario Ferrara, presidente del Consorzio Toledo-Spaccanapoli che rappresenta 60 attività commerciali nell’area più turistica di Napoli dominata da pizzerie, ristoranti, bed and breakfast meta di decine di migliaia di turisti (con numeri record negli anni antecedente allo scoppio della pandemia). “Non si fa formazione vera ai lavoratori. Verifichiamo la mancanza di camerieri, cuochi, di pizzaioli che non hanno una sufficiente preparazione per affrontare un’attività lavorativa. Per le attività classiche il problema è attenuato, che si verifica sugli stagionali, soprattutto nell’ambito della ristorazione. Il problema però è nazionale, non solo locale”.

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