Gli incontri, a volte con un carico emotivo notevole, con chi ha deciso di tentare la fortuna in Europa ad ogni costo. Negli occhi, nel cuore e nell’anima, il lascito dell’esperienza dei salvataggi, sovente complicati e pesanti, con la consapevolezza che il modo più completo e compiuto di dare ascolto alla propria indole intrisa di umanità e antirazzista è partecipare alle missioni umanitarie. Fabio D’Auria, napoletano di 46 anni, fa parte di quella schiera di attivisti che si è messo in gioco oltre le comodità della conoscenza del proprio territorio – a partire da quello di Bagnoli e di altre zone di Napoli – per andare in mare a bordo delle navi Ong, prima con la Open Arms e poi con la nave di Medici Senza Frontiere Geo Barents, a soccorrere i naufraghi alla deriva nel Mediterraneo, passando praticamente 4 mesi della propria vita a partecipare a missioni: la missione 94 di Open Arms a bordo della nave Astral, la 95 della Open Arms 1 e poi le 18, 19 e 20 con Medici Senza Frontiere a bordo della Geo Barents compresa quella dello scorso novembre quando l’Italia e la Francia si scontrarono su dove dovesse attraccare la nave su cui salirono 572 persone di varia nazionalità salvate in zona Sar maltese nel Mediterraneo tra il 27 e il 29 ottobre scorsi.
Fabio, però, nel colloquio con Tell non si nasconde e dice: “Anche i soccorritori soffrono di sindrome post traumatica, si parla della sindrome post bellica dei militari ma mai di quella degli attivisti in mare. Eppure esiste”. D’Auria parla per esperienza diretta. “Dopo una delle prime missioni con la nave Astral della Open Arms – racconta cercando di far capire la questione al meglio – sono stato 10 giorni senza riuscire a parlare”. In quell’occasione, la missione attorno a Lampedusa portò al salvataggio di 200 persone.
Le false convinzioni sulle missioni in mare
Commentare dal divano o da dietro al pc è facile. Vivere intense settimane di salvataggio e soccorsi, significa vivere realmente l’enorme complessità del fenomeno migratorio. E anche per Fabio l’esserci ha significato allargare gli orizzonti, rafforzare delle convinzioni e acquisirne delle altre. “Sentivo che il mio essere attivista dovesse essere espresso in modo diverso. Sono stato prima in Spagna a preparare l’imbarcazione Open Arms 1 e poi ho conseguito tutta una serie di brevetti, attestati. Mi sono preparato con delle esercitazioni, prima di salire a bordo delle navi”, racconta Fabio, secondo cui “va cambiata la narrazione rispetto alle partenze delle persone dalla Libia che attraversano il mare per tentare una nuova vita in Europa” e questo a maggior ragione dopo la stretta sugli interventi delle Organizzazioni non governative decise dal governo di Giorgia Meloni lo scorso 28 dicembre. E perciò per Fabio “l’immagine dei soccorsi di persone sui gommoni, che una certa politica usa per propaganda di stampo colonialista, è distante da ciò che accade realmente in mare. Ci sono famiglie di diverse etnie che partono per la guerra, ma non solo: c’è chi lo fa anche a causa dei cambiamenti climatici, delle carestie, per l’assenza di prospettive economiche”.
Fabio si fa sempre forte delle sue argomentazioni rispetto a quanto vissuto sulle navi Ong in mare per salvare vite umane. “A bordo ho incontrato anche un minore tunisino di 10 anni non accompagnato e un 12enne egiziano, tanto per fare degli esempi. Allo stesso tempo, mi sono imbattuto in una famiglia siriana composta da padre, madre, 4 bambini, zio e nonno, quest’ultimo con problemi alla vista. Questa famiglia aveva in Siria un negozio di ortofrutta ma a causa della guerra e del mancato arrivo delle merci è stata costretta a chiuderlo”. L’attivista napoletano 46enne, che nelle sue missioni ha collaborato con altri italiani, oltre che statunitensi, iraniani, siriani, americani, francesi, tedeschi, spagnoli, ne è persuaso: “La storia di questa famiglia siriana fa capire che il problema migratorio lo si percepisce in modo sbagliato”.
I centri di detenzione libici
Come già raccontato dal nostro sito, tra i principali buchi neri del rispetto dei diritti delle persone migranti è rappresentato dalle condizioni disumane dei centri di detenzione libici, illegali. Anche qui, gli incontri di Fabio ci aiutano a comprendere la dimensione del fenomeno. “In una delle missioni ho conosciuto un ragazzo pakistano poco più che ventenne che attendeva come tutti finalmente un approdo a terra. Mi fece vedere delle foto del Pakistan, quando tentò per la prima volta mesi addietro di lasciare il Paese. A un certo punto mi indicò un’immagine di un giovane in carne: era lui stesso. Non l’ho riconosciuto perché la persona che avevo di fronte era magrissima, conseguenza della detenzione di alcuni mesi nei centri libici. Avevo davanti uno spettro. Lì mi sono sentito male per quanto aveva vissuto”. Il giovane pakistano, giunto in Italia insieme ai suoi connazionali, sta chiedendo l’asilo in Italia e nel frattempo sta imparando la lingua. Fabio è in contatto con lui.
Il 46enne napoletano insiste sulla verità da raccontare rispetto alla questione migratoria. “Capite cosa vivono le persone che tentano la traversata in mare? Le ong fanno un lavoro importante, anche se effettuano il 10% dei salvataggi rispetto alle decine di migliaia di soccorsi della Guardia Costiera Italiana”. Poi aggiunge: “Immaginate la condizione psicologica dei naufraghi che comunque hanno una forza d’animo incredibile perché determinate a cercare felicità nei Paesi europei, a qualunque costo. Molti di quelli che ho contribuito a salvare mi hanno ringraziato, ma io ho risposto loro: “Cosa avreste fatto a parti invertite?’’. Si tratta di mutuo soccorso, quello che dovrebbe sempre prevalere”.
L’esperienza della Geo Barents
A novembre, prima dello sbarco poi completato al porto di Catania, il governo neo insediato di Giorgia Meloni e quello francese di Emmanuel Macron si scontrarono sull’approdo delle 572 persone, provenienti dall’Africa del Nord, subsahariana, Egitto, Pakistan, Siria, a bordo della Geo Barents, che in queste ore è di nuovo in mare con una nuova missione nonostante la stretta decisa dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Fabio D’Auria era sulla nave, lo si vede anche in alcune immagini e video che hanno fatto il giro del mondo. In lui i ricordi sono scolpiti. “Qualcuno voleva che andassimo in Norvegia perché la nave batteva quella bandiera e si decise per lo sbarco selettivo. A bordo c’era gente senza una gamba, con cicatrici, ammassate e il governo non ci faceva sbarcare”.
Quando le autorità italiane decisero lo sbarco selettivo, che nei fatti non permetteva a tutti di scendere, la situazione s’è fatta esplosiva. “Tre siriani si tuffarono in mare, uno di questi per riprendere gli altri due. Io ero di guardia nella parte superiore della nave – afferma D’Auria – ho dato io l’allarme e lanciato i salvagente. Il gesto fu fatto perché nonostante vedessero la terra ferma, le autorità non ci facevano sbarcare. Sono stati momenti concitati, una cinquantina di persone era pronta a buttarsi in mare rischiando di farsi male seriamente e ho visto altri che si procuravano ferite da soli e davano testate verso i muri”. In quel frangente, dice ancora Fabio, “io ho tentato di fare la mia parte per riportare la calma, frutto anche delle esercitazioni fatte con Msf, ma era complicato perché con la notizia dello sbarco selettivo sulla Geo Barents la situazione divenne ulteriormente tesa. È stato davvero difficile. Si mette a rischio anche la propria, di vita e poi trovi una nave ambulanza ma devi essere presente a te stesso, metti in conto quello che poi si è verificato”.
A non funzionare, secondo Fabio – consapevole di ciò anche in virtù della precedente esperienza di attivista – sono anche le procedure per ottenere i visti. “Ad esempio, il Gambia richiede garanzie bancarie, somma sul conto corrente, una persona che possa garantire il ritorno con l’aereo. Ma, nonostante questo, non è stato sufficiente alle persone di quel Paese a ottenere dei via libera per entrare in Europa ma si tratta di persone in cerca di libertà, vogliono affermare la propria condizione di vita rendendola più gradevole».