Viviamo di ondate mediatiche, di grosse tempeste di notizie che spazzano via tutto il resto per poi lasciare spazio a quelle successive. E così all’infinito. Nell’era digitale, è diventato difficile abituarsi a gestire la sovrabbondanza di informazioni, specialmente quando non si possiedono gli strumenti e quando a parlare non sono solo i tradizionali media. Il risultato, amplificato dai social, è un aumento vorticoso di contenuti la cui qualità e veridicità è spesso posta in dubbio. Parliamo di infodemia, termine giornalistico coniato nel 2020 con l’avvento del Covid per esprimere “la circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili”. Sì, perché i contenuti sono molti ma più vengono trasmessi, meno vengono assorbiti dal fruitore che, in termini medi, trova difficoltà nel costruire un quadro di una vicenda.

Sul tema è intervenuta Gabriella Taddeo, ricercatrice in Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi e docente presso il Dipartimento Studi Umanistici dell’Università di Torino.

Nel processo comunicativo attuale stiamo trascurando un tassello fondamentale: il lettore ha tempo? È in grado di digerire e metabolizzare tutti i contenuti che riceve?

Riescono, sì, ma non perché raccolgono tutto indistintamente ma perché attivano dei processi di selezione. E questo, se si riprendono studi di 70-80 anni fa, dimostra che certe dinamiche si producevano anche in relazione alla propaganda politica o alla guerra, ben prima dell’avvento dell’era digitale. Una volta che ci esponiamo a dei contenuti, il gusto che conferma la nostra identità e punto di vista farà da filtro, ed è così che una persona con tendenze razziste selezionerà fonti idonee a confermare la propria ideologia. Inoltre, va considerato che certi contenuti che assorbiamo vengono a loro volta rielaborati e usati a fini personali. Studi su persone razziste che guardavano video di violenza di poliziotti bianchi verso persone nere dimostravano che i soggetti analizzati tendevano a riportare i contenuti giustificando il comportamento dei poliziotti. E un altro fattore è la memoria, quella selettiva, che, sulla base di un numero di notizie registrate, ne seleziona in modo più o meno volontario solo alcune. Quindi, ovviamo alla grande quantità di news con dei meccanismi umani di autodifesa. E il tempo c’è.

Il tempo lo abbiamo, allora. Ma, anche per il ruolo mediante degli algoritmi, lo impieghiamo per leggere quello che ci soddisfa o, meglio, che ci dà ragione. Il risultato è una polarizzazione accesa pronta a verificarsi in ciascun tema. Ma c’è un modo per uscire dallo schema social in cui troviamo solo quello che l’algoritmo ha in serbo per noi?

Come spiego anche nel mio libro “Persuasione digitale. Come persone, interfacce, algoritmi ci influenzano online”, il rapporto con gli algoritmi è molto più complesso di quanto ci immaginiamo. Di sicuro, l’algoritmo agisce da specchio intercettando nostre tendenze e nostri feedback. Ma questo non vuol dire che un algoritmo non possa rispondere a una logica di serendipity, saziando l’esigenza tutta umana di stupore e sorpresa. È il caso di TikTok dove all’utente non vengono proposti solo i contenuti idonei al proprio gusto, ma anche altri di natura completamente spiazzante. E poi, diciamolo, non siamo affatto vittime. I meccanismi digitali si orientano semplicemente sui retrofeedback che ricavano dall’utente, preparandosi a rinnovare di continuo il materiale secondo una strategia di re-design intensivo. Dovremmo chiederci piuttosto perché ci trinceriamo passivamente dietro l’alibi dell’algoritmo quando oggi l’opinione opposta e discordante è a portata di click.

Ci facciamo le nostre idee, a tratti divisive, ma su temi troppe volte imposti. La capacità dei media di definirci le nostre priorità, quella che negli anni Settanta chiamarono agenda setting, esiste anche in un mondo globalizzato in cui un post, una storia su Instagram o un video di TikTok fanno notizia?

All’avvento dei social, ricordo, si esultò per questa democratizzazione comunicativa che dava spazio a chi non l’aveva. Con il tempo, però, si è capito che non basta avere un account su YouTube per raggiungere una grande visibilità pubblica ma servono tutti quegli strumenti culturali e comunicativi che danno potere a chi il potere lo aveva già. I contenuti informativi, più di tutti, richiedono una voglia di affidarsi che va costruita e che risponde ai criteri classici dell’industria culturale, cioè l’autorevolezza, la credibilità e la popolarità. La rete internet segue le leggi di potenza o effetto di San Matteo: a chi più ha più sarà dato. Ed è, attenzione, un meccanismo umano e non solo algoritmico. Se vediamo un ristorante pieno e uno semivuoto, andiamo nel primo perché convinti che dove va la massa ci sarà più qualità. E poi agenda setting non significa solo quale tema toccare, ma anche, nello specifico, quale vicenda o caso approfondire all’interno dello stesso tema. Perché tra i tanti episodi di femminicidio i media hanno raccontato proprio quello di Giulia Cecchetin? Avrà agito la potenza visiva delle sue immagini, o la vicinanza temporale rispetto alla giornata contro la violenza sulle donne, il 25 novembre. In ogni caso, si scelgono casi e storie più adatte dal punto di vista comunicativo.

Ecco, il femminicidio. Se ne è parlato tanto, come prima della Guerra in Medio Oriente e prima ancora di quella in Ucraina, però sembra che le grandi bolle tendano a sgonfiarsi troppo presto. È vero che i grandi temi non durano più?

Che si creino delle grandi bolle su certi temi, e tanta attenzione, non è affatto controproducente. Dobbiamo considerare che una notizia per essere tale deve avere degli elementi di discontinuità con il passato; l’informazione, propriamente, è uno scarto di conoscenza da un punto a ad un punto b. Quando si giunge ad una saturazione informativa, la notizia cessa di esistere. E ci conviene accettarlo perché la notiziabilità è data anche da fattori emotivi e non solo da nuovi dati numerici. Anzi, se, pur di tener vivo un grande tema, si rianima la notizia di giorno in giorno con elementi poco utili dal punto di vista informativo, l’effetto è solo sgradevole.

Spesso le cavalcano pur di tenerle calde oppure le creano anche dove non ci sono, ma resta il dubbio se questo avvenga per soddisfare il nostro timore da FOMO (paura di restare esclusi dal mondo esterno) o invece no. Siamo anche noi responsabili di così tante notizie?

La sovrabbondanza informativa, ma in generale contenutistica, è merito dei social, della possibilità di ognuno di godere del proprio minuto di celebrità. Però, siamo cauti, perché quello che ci muove per contrastare la FOMO sono ragioni relazionali. Non cerchiamo solo notizie, ma vogliamo intrattenerci. Guardiamo trash per sollevarci dalla nostra mediocrità, cerchiamo il profilo del nostro ex, scrolliamo video motivazionali alla ricerca di stili di vita e immaginari oltre che quotidianità che possano essere valoriali. La Fomo è questa, e quello che i social ci hanno insegnato che più che paura di restare esclusi dalla realtà, è paura di perdere di vista le vite degli altri.

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