Secondo le ultime stime della Banca Mondiale, la pandemia di Covid-19 ha violentemente colpito l’economia di tutti i Paesi dell’America Latina creando 4,7 milioni di nuovi poveri e facendo strage di lavoratori e imprese. Di questi Paesi il più colpito risulta essere il Messico che, a causa di politiche populiste e misure di contenimento blande, ha perso circa il 6,6% del Pil. Nel solo 2021 la percentuale di persone appartenenti alla classe media (definite da un reddito giornaliero compreso fra i 13 ed i 75 euro) sono passate dal 30,6% al 27,6% della popolazione totale marcando una storica riduzione di 3 punti netti percentuali.

In un Paese in ginocchio, gli stati confederati più poveri sono stati abbandonati a se stessi, e a patire maggiormente il contraccolpo della crisi sono state le popolazioni indigene di origine Maya. Nello stato del Chiapas, storica roccaforte della guerriglia zapatista dove maggiormente si concentrano gli insediamenti delle comunità indigene, secondo i dati del Coneval (Consejo Nacional de Evaluacion de la Política de Desarrollo Social) il 76,4% della popolazione vive in condizione di povertà estrema; qui solo il 15% della popolazione maggiorenne ha ricevuto almeno una dose di vaccino, e ovviamente di questi nessun indigeno. Intere tribù tojolabal, chol, mame, tzozil, zoque, lacandòn e tzeltal sono state abbandonate in balia della miseria più estrema. Donne, uomini, bambini la cui unica colpa è quella di essere nati poveri.

LA VITA IN UN VILLAGGIO TZELTAL

In un villaggio Tzeltal, nella regione di Alto Chiapas, in molti nemmeno sanno cosa sia il Covid e la vita procede come sempre. L’intera economia di queste comunità si basa sull’autosufficienza alimentare. La dieta quotidiana è composta prevalentemente da mais e fagioli che ogni famiglia produce utilizzando tecniche agronomiche arcaiche e poco efficienti che riescono a malapena a soddisfare le esigenze alimentari delle comunità. In un villaggio indigeno il mais può essere consumato crudo, bollito, arrostito, nixtamalizzato (bollito con calcare), sotto forma di “esquites” (in grani), di “elotes” (pannocchie con formaggio), di “atole” dolce o fermentato (bevanda calda con mais macinato), di “tacos” (dischi arrotolati ripieni), “quesadillas” (mezzelune arrostite ripiena di formaggio), di “tortilla” (steso e scottato in dischi morbidi), di “tostadas” (steso e scottato in dischi croccanti) e ovviamente viene anche usato per creare un alcol distillato chiamato “posh”, utilizzato sia per scopi ludico-ricreativi che durante le cerimonie e i rituali religiosi.

L’unico tipo di commercio a cui si dedicano queste comunità è legato alla produzione di carbone vegetale, anch’esso ottenuto mediante l’antica tecnica della carbonaia.
L’intera famiglia si dedica a questo processo, donne e bambini compresi. Gli alberi vengono abbattuti, tagliati, ammassati in “camini”, incendiati e ricoperti di foglie e terriccio in modo che la combustione, in presenza di limitate quantità di ossigeno, inneschi il processo di carbonizzazione.


Ogni albero produce circa 12 sacchi di carbonella, che vengono poi venduti a 100 pesos cadauno (meno di 5 euro). Nel mese di gennaio, durante le riunioni degli uomini, vengono assegnati non più di 5 alberi di rovere per famiglia e questi dovranno bastare al sostentamento economico dell’intero nucleo per tutto l’anno fino alla successiva assegnazione.

Come molte società indigene, anche le società precolombiane hanno un’impostazione maschilista matriarcale. La donna è sì la regina del focolare, venerata in quanto generatrice di vita, protetta e onorata dai componenti maschi, ma non le è permesso prendere decisioni che, per convenzione, spettano esclusivamente agli uomini.

Solitamente gli anziani, anche se non prendono alcuna decisione esecutiva, vengono considerati membri elitari. Secondo uno studio commissionato dal Senato della Repubblica messicana, l’aspettativa di vita di un indigeno è di 20 anni inferiore all’aspettativa di vita di un cittadino messicano non indigeno.

A causa di questo rapido ricambio generazionale, la presenza di numerosi bambini assume un ruolo fondamentale nella quotidianità delle comunità dei popoli originari. Nonostante i diritti delle bambine, dei bambini e degli adolescenti siano sanciti dalla Costituzione, i nuovi nati non vengono quasi mai registrati se non attraverso i censimenti statali con cadenza decennale.

I bambini (generalmente ogni coppia ha da 2 a 7 figli) non vanno a scuola e vivono una vita fatta di gioco e libertà totale. Purtroppo però la loro infanzia finisce troppo presto poiché appena adolescenti affiancano i genitori nelle attività lavorative. Molti di loro parlano solo la lingua tribale della propria comunità (ce ne sono un’infinita varietà e può capitare che villaggi a poca distanza uno dall’altro parlino lingue diverse) e imparano lo spagnolo solo in età adulta. Molti bambini non hanno mai viaggiato, non hanno mai visto un film, non sanno cosa sia un social network e conoscono decine di piante commestibili senza saperne il nome.

In questo contesto nessuno si è mai preoccupato di creare guide informative nelle diverse lingue indigene. E la pandemia, per quelli che ne hanno sentito parlare, è solo un problema secondario e molto lontano. Nessuno conosce il numero reale di contagi fra le comunità dei popoli originari, poiché qui non vengono eseguiti test di alcun tipo e, in caso di malattia, le cure vengono affidate non agli ospedali (troppo lontani e decisamente troppo cari) ma ai sanatori, sciamani con il potere della guarigione che con cifre modiche praticano rituali magici e offerte alle divinità per scacciare gli spiriti maligni. Purtroppo in queste aree remote, qualora gli abitanti dovessero entrare in contatto con il virus, le conseguenze sarebbero devastanti: il contagio si espanderebbe senza freni seminando decessi che non verrebbero neanche annoverati nelle statistiche ufficiali. E l’isolamento, che fino ad ora ha protetto questi popoli, finirebbe col trasformarsi in una sentenza di morte.

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