Il sorriso sui volti e la profondità degli occhi, simili se non addirittura uguali, nascondono in realtà una tristezza di fondo per il pensiero dei loro familiari ancora sotto il giogo dei talebani che da quasi 2 anni (ri)governano l’Afghanistan con violenza, con le donne come particolare bersaglio. Il presente si chiama Italia, il futuro forse Kabul o magari Daikundi la città natia. “A patto che, però, la situazione migliori”. Cosa adesso impossibile da immaginare. Fatima e Hafiza Mahdiyar sono due sorelle afgane di etnia Hazara di 22 e 18 anni. Sono in Italia da circa un anno e mezzo. Partirono dall’aeroporto di Kabul alla fine di agosto del 2021: erano passate due settimane dal ritorno al potere dei talebani a seguito dell’abbandono del territorio da parte degli americani che erano presenti nel Paese dalla fine del 2001, quando partì l’operazione militare “Enduring Freedom’’ voluta dall’allora presidente George W. Bush a un mese dall’attacco alle Torri Gemelle per stanare Al Qaeda dopo l’attentato dell’11 settembre a New York.
Fatima e Hafiza sono indignate perché, affermano, “il mondo si è dimenticato dell’Afghanistan e della sofferenza del nostro popolo. Le donne sono soggiogate e le famiglie sono così povere da non potersi cibare. Nessuno parla più di cosa vivono gli afgani, la comunità internazionale si attivi”.
L’abbandono dell’Afghanistan e l’arrivo in Italia
Le due sorelle vivono attualmente nel centro di Napoli, ospiti di un centro d’accoglienza gestito da Arci Mediterraneo, un’impresa sociale che si occupa di garantire i diritti dei rifugiati. Fanno parte del progetto della ReteSai, sistema di accoglienza e integrazione a cui possono accedere titolari di protezione internazionale e tutti i minori stranieri non accompagnati con la possibilità di avere un letto, di studiare, ricevere delle piccolissime quote in denaro (7 euro al giorno in questo caso). La 22enne Fatima frequenta la facoltà di medicina alla Federico II di Napoli agognando di diventare una cardiologa. La 18enne Hafiza, ancora minorenne all’arrivo nel nostro Paese, sta completando il ciclo di studi superiori serale alla scuola Elena di Savoia e ha intenzione di iscriversi alla facoltà di Economia. In Italia, con loro, è arrivata anche la loro sorella più grande, attualmente a Bari per seguire all’università Relazioni Internazionali.
Le sorelle Mahdiyar parlano in modo sincronizzato, quando una inizia un concetto l’altra lo completa e viceversa, a conferma della comune loro volontà di essere una voce capace di spezzare la sordità del mondo rispetto alla situazione afgana. Fatima ricorda molto bene il giorno del ritorno dei talebani, il 15 agosto 2021. “Ero impegnata negli studi quando avevamo sentito cosa stesse succedendo. Tornata a casa i miei familiari non c’erano, erano già intenti a scappare”. “Non ci saremmo mai aspettate che dopo vent’anni di progresso potessero tornare, non potevamo crederci. Il governo di Ashraf Ghani era in carica fino al giorno prima, poi il presidente è fuggito e i fondamentalisti si sono instaurati alla guida dell’Afghanistan”, aggiunge con rammarico Hafiza.
Fatima e Hafiza hanno un papà militare che ha collaborato con gli americani, due fratelli sposati, oltre alla madre e all’altra sorella partite poi con loro. Riprende il racconto Fatima: “Abbiamo abbandonato la nostra casa a Kabul soprattutto perché le donne non erano al sicuro, visto come la pensano i talebani. Siamo state due settimane da mia zia, poi il 28 agosto siamo partite. Questo è stato possibile grazie all’associazione JRS (che assiste i rifugiati in quasi 50 Paesi e opera in Afghanistan dal 2005 ndr.), dove ha operato mia sorella. Anche il fatto che papà sia un militare in servizio a Kabul – prosegue la studentessa 22enne – è stato un fattore importante per andarsene grazie ad alcuni accordi in vigore che interessavano chi faceva parte dell’esercito e dava ai familiari una finestra di 15 giorni per partire”.
Ora sono passati quasi 2 anni da quando Fatima, Hafiza e l’altra loro sorella arrivarono a Roma, dove restarono due settimane grazie anche all’appoggio della comunità di Sant’Egidio che si è attivata dopo lo scoppio del caos in quella parte di Asia. Le ragazze per alcuni mesi restarono in un centro d’accoglienza a Montefalcone, in provincia di Benevento, dove hanno iniziato ad apprendere l’italiano ora parlato correttamente. Infine approdarono a Napoli.
La rabbia e l’angoscia
Tornati al potere i talebani, piano piano le difficili conquiste sociali dell’Afghanistan post primo periodo fondamentalista (negli anni ’90) si sono polverizzate. I talebani vietano alle donne di andare a scuola e all’università. La legge coranica è il principale faro della gestione del Paese. Intanto, la povertà dilaga. Fatima piange nel ricordare come “le donne e le ragazze in Afghanistan non possano frequentare né la scuola né l’università. È vietato loro di lavorare e possono andare al parco soltanto se accompagnate dagli uomini. Così, sono destinate a morire. Perché dobbiamo accettarlo? Sono passati quasi 2 anni ma complice lo scoppio della guerra in Ucraina e le proteste in Iran nessuno se ne interessa più. Non si può rimanere in silenzio”.
L’angoscia è anche al pensiero della famiglia e lì un dolore diventa ancora più lancinante. “La nostra famiglia vive nascosta, non sappiamo dove sia e non lo può dire – denuncia Fatima – Mio padre è un militare che ha collaborato con gli americani e quindi soggetto a rischio rappresaglie. Poi ci sono mia madre e le mogli dei miei due fratelli. In un mese ci sentiamo una volta, per pochi minuti al telefono. Hanno paura di essere scoperti dai talebani e finire nelle loro mani e quindi i contatti sono rari. Sono 3 settimane che non ci giungono loro notizie”. Hafiza fa ulteriore sfoggio di sincerità. “Quando vedo i miei coetanei con i propri familiari, ammetto di provare invidia. Una ragazza di 18 anni come me non dovrebbe vivere lontano dai genitori. Stiamo cercando di farli venire ma le nostre possibilità economiche sono scarse e ci è stato detto che al momento per poter accedere a qualche programma per rifugiati dovrebbero avere almeno 65 anni, ma mio padre e mia madre sono molto più giovani”.
Hafiza non si capacita di cosa accade oggi nel suo Paese. “Per me è responsabilità anche degli americani. Capita spesso che i Paesi potenti quando sanno di non poter più avere dei vantaggi, lasciano le nazioni dove hanno interessi e si sono in qualche modo stabiliti. Parere mio, credo sia successo così anche per l’Afghanistan. I talebani sono tornati anche per queste responsabilità e i fondi internazionali nelle banche non sono affatto stati utilizzati per aiutare il nostro popolo”. La ragazza di 18 anni incalza: “Questa storia che i talebani di oggi potessero essere più moderati e disposti al dialogo rispetto a quelli di 25 anni fa è una bugia. La pensano e agiscono esattamente come allora, non so perché qualcuno non ci abbia creduto”.
Intanto il progetto Rete Sai sta per esaurire il suo periodo e il futuro per le due sorelle Mahdiyar è un’incognita. Fatima: “Siamo agli sgoccioli di quel percorso, dopo dovremmo trovare un alloggio da sole qui a Napoli. Ma è difficile, i soldi sono pochi e i proprietari appena hanno saputo che eravamo immigrate non ci hanno mostrato disponibilità. Io lavoro come cameriera in un ristorante giapponese di via Chiaia, ma il mio obiettivo è completare gli studi in medicina e cominciare la professione. E poi a me piace leggere romanzi e poesie in persiano, la lingua nostra d’origine. Fare la cameriera è una necessità”. Hafiza fa anche un cenno alla recente strage di Cutro, dove sono morti anche afgani. “Uomini, donne e bambini preferiscono affrontare una difficile traversata del mare perché si lasciano alle spalle situazioni impossibili. È così per tutti i Paesi poveri e anche per l’Afghanistan. Emigrare non è una scelta, vorrei si comprendesse” .
La persecuzione degli Hazara
Come detto, Fatima e Hafiza sono di etnia Hazara, cioè sciiti duodecimani del centro dell’Afghanistan che subiscono un genocidio nel silenzio più totale. Fatima sottolinea: “Non solo con i talebani, la soppressione della nostra etnia va avanti da più di 100 anni, sotto tutti i governi. Vogliono far prevalere l’etnia Pashtun (sunnita ndr.) ci vogliono fuori dall’Afghanistan, nessuno offre a questa etnia un lavoro. È un’ulteriore dramma per noi. Delle famiglie sono state uccise a sangue freddo così come i ragazzi sugli autobus, nelle scuole, nelle palestre. A macchiarsi di questi attentati sono stati anche Al Qaeda e Isis”. “Su Twitter – riprende Hafiza – è ancora attivo l’hashtag #Stophazaragenocide ma purtroppo nonostante le manifestazioni nessuno ferma i massacri. Gli Hazara vogliono un Afghanistan emancipato, sviluppato. Questo a molti non sta bene”. Proprio come i talebani che impunemente commettono atrocità, costringendo una generazione o forse più a scappare e riparare altrove solo per il gusto della libertà.