Ormai è giusto parlare di global boiling e non più di global warming, come ha sottolineato il segretario delle Nazioni Unite, Antonio Gutterres, in un incontro nella sede centrale dell’Onu di New York giovedì 28 luglio 2023. Ed è innegabile che l’uomo, se non vuole essere spazzato via da una crisi climatica senza limiti, deve adattarsi e adattare la realtà che vive a queste nuove condizioni. La moda è un caso eclatante. È già da un po’ che il settore del fashion tenta soluzioni più efficaci e sostenibili, ma sarà che siamo arrivati sull’orlo di una rivoluzione?

Il gruppo Kering insieme alla società di consulenza Bsr ha redatto un rapporto dal titolo “Cambiamenti climatici: implicazioni e strategie per il settore della moda di lusso” che identifica sei materiali come a rischio di estinzione: pelle bovina e di vitello, pelle di pecora e agnello, seta, vigogna, cashmere e cotone. Gli ultimi tre, in particolare, a causa della loro limitata disponibilità geografica e della dipendenza dai sistemi naturali.

Si parla di sistemi naturali perché il cambiamento climatico influenza la produzione di materie prime. Ci sono paesi come il Pakistan, da cui proviene una larga fetta del cotone mondiale, che dopo le inondazioni del 2020 ha visto ridurre la resa annuale del 40%. E proprio di cotone, fibra che ha un estremo bisogno di acqua, ne è calata del 28% l’offerta in Texas a causa della lunga siccità che ha colpito gli Stati Uniti del Sud. Rischiano anche fibre naturali come la seta e la lana. L’aumento delle temperature e le fluttuazioni di umidità minacciano i bachi da seta e rendono la pelle di pecora più vulnerabile a parassiti e malattie. Invece, nel Queensland australiano, le inondazioni hanno costretto gli allevatori a far salire in alture le pecore e a ridurre sensibilmente il loro habitat. Ma c’è anche il caso contrario, quello di un disastro artificiale e non naturale. Il lago Aral in Uzbekistan oggi ha perso il 75% della sua originaria capienza dopo che il regime sovietico durante la Guerra Fredda scelse di deviare il corso dei fiumi affluenti per irrigare i campi che ospitavano le coltivazioni intensive di cotone.

Non è solo l’approvvigionamento a esser messo in crisi, ma gli stessi designer devono necessariamente ripensare le scadenze stagionali. In Europa e nel Mediterraneo, dove storicamente il turnover degli abiti legato alla moda è veloce, non si esclude l’ipotesi che certi indumenti estremamente caldi e coprenti non saranno più necessari. Probabilmente, saranno sempre più richiesti tessuti leggeri e traspiranti per far fronte a temperature sempre crescenti, ma anche di design che favoriscano il rinfrescarsi del corpo, quindi indumenti non troppo attillati o fascianti. Ma va tenuto presente che oltre al caldo, aumenteranno gli eventi atmosferici estremi per cui occorrerà anche un abbigliamento tecnico studiato progettato per proteggerci da condizioni climatiche rischiose, e non basterà l’impermeabilizzazione tradizionale.

E le sperimentazioni, se così vogliamo definirle, sono già iniziate. Un dispositivo detto Reon Pocket prodotto dalla Sony è il primo a sfruttare il raffreddamento termoelettrico: basta inserirlo in una maglietta speciale con una piccola tasca alla base del collo e collegarlo allo smartphone da dove puoi regolare la temperatura dell’aria condizionata. E non funziona solo esclusivamente a principio di raffreddamento, ma piuttosto può anche essere usato in inverno rilasciando calore e aumentando la temperatura corporea per un massimo di otto gradi.

Altra novità è la t-shirt “fatta” di legno, le cui fibre offrono un ottimo isolamento termico quando fa freddo oltre che alte proprietà antibatteriche. Le camicie apollo, invece, utilizzando la tecnologia delle tute spaziali della Nasa, possono regolare la temperatura corporea contro il caldo e l’umidità, ma senza dispositivi esterni. Mentre è dell’anno scorso, anche se è stata ribadita quest’anno, la richiesta “fai-da-te” del primo ministro spagnolo Sanchez che ha chiesto ai dipendenti di aziende pubbliche e private di togliersi le cravatte per risparmiare l’energia spesa in aria condizionata e lo ha detto riferendosi specialmente a queste ondate di caldo torrido che hanno colpito l’Europa. Ma non è la prima volta che un Paese invita i lavoratori a vestirsi con abiti più leggeri per risparmiare sull’aria condizionata. Dopo la perdita della centrale nucleare di Fukushima nel 2011, che rischiava di provocare mancanza di energia, il Giappone aveva lanciato la campagna “Super Cool Biz” con la quale aveva incoraggiato i dipendenti a vestirsi per l’ufficio in modo decoroso ma abbastanza leggero da poter affrontare il caldo.

È tutto cinese invece il facekini (termine che nasce dalla crasi tra face e bikini), una sorta di costume facciale in lycra che lascia scoperti occhi, naso e bocca (mentre copre le orecchie), spesso associato al cappello, progettato per difendere il viso dal sole e dal caldo asfissiante. Prevedono un tessuto leggero, quindi non aumentano l’effetto sauna. Inventato nel 2004 da Zhang Shifan, inizialmente era stato concepito come tuta che coprisse il corpo dalle punture di medusa. I clienti hanno poi fatto notare che si sarebbe potuto rivelare utile anche come protezione dal sole. Mancava la copertura per la testa, aggiunta modificando il cappuccio di una muta subacquea. Poi, si iniziò a scegliere colori sgargianti per scongiurare l’effetto negativo da passamontagna finchè non ha iniziato a imporsi in tutto il Paese. Ma il vero boom è avvenuto proprio quest’anno, nel 2023, e questa volta per uso non esclusivamente legato alla balneazione, ma per proteggere la pelle dai raggi UV anche in città. A far volare sul mercato questo prodotto è poi anche la moda asiatica, che predilige ancora un incarnato di porcellana, protetto dall’abbronzatura anche nei mesi estivi.

La moda imparerà a essere funzionale e meno impattante possibile. Non è anomalo un futuro dove indosseremo solo abiti usati, o ricavati da tessuti già esistenti o riciclati o creati a partire dalle piante. Va detto che l’industria tessile è stata responsabile della produzione di CO2 e di conseguenza dei cambiamenti climatici che ora sono gli stessi a minacciare l’approvvigionamento di materie prime e la diversità stagionale, idea ormai da abbandonare. Chiaro resta, però, che il comparto ha il dovere di agire, se non per interesse nei confronti del pianeta quantomeno per la sua stessa sopravvivenza.

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