Con che grado di difficoltà chiediamo oggi di andare in ferie? Difficile stabilirlo, facile accertare la difficoltà che invece viviamo. Sì, perché con l’espressione vacation shaming si diagnostica propria la sindrome di ansia da ferie al capo. Sindrome in crescita esponenziale. Tra le principali fonti di stress, la scelta del giusto momento per comunicare la richiesta di ferie al capo (34%), il timore di ripercussioni lavorative (27%) e di tensioni con i colleghi (21%). Ne conseguono problemi nell’organizzazione last minute del viaggio a causa dei ritardi nell’approvazione del piano ferie (34%), i problemi di budget (26%) e ancora il pensiero angoscioso del rientro alla fine delle vacanze(29%).

Sul tema, abbiamo intervistato Valentina Marchionno, network coordinator di Stimulus Italia, una società di consulenza specializzata nel campo del benessere e della salute psicologica nelle realtà aziendali. Alla domanda su quale è il meccanismo psicologico che colpisce una grande fetta di lavoratori, la dottoressa Marchionno risponde che si tratta di una dinamica che agisce sul piano relazionale. “Non chiedere le ferie è l’effetto del vacation shaming, situazione in cui colleghi o superiori fanno sentire a disagio il collega che per scelta si prende una pausa. I lavoratori si sentono in difficoltà e fanno fatica a chiedere le ferie o non le chiedono affatto. E succede perché c’è una forte componente culturale, dal momento che la società occidentale, quella in cui viviamo e siamo cresciuti, punta tanto sul lavoro in un’ottica produttiva e performativa. Ci ritroviamo incastrati in una routine lavorativa frenetica e insostenibile. È un circolo vizioso, che porta ad un disequilibrio tra la vita personale e la vita lavorativa. Così tendiamo a provare un senso di colpa che è dovuto a pressioni sociali, che a cascata derivano dalla pressione socioculturale che subiamo.”

Però, aggiunge, va chiarito il senso del termine originale “shame”, cioè vergogna. “Shaming è un profondo stato d’animo di vergogna che si lega al senso di colpa, e che nasce dal sentirsi a disagio nell’affermare un proprio bisogno. Si parte dal disagio profondo, dal senso di colpa, da una vergogna che nasce da un senso di svalutazione, fino alla vera e propria paura nel chiedere le ferie. Senso di colpa e paura sono consequenziali.” La svolta, ammonisce l’esperta, avverrà quando ci dirigeremo verso una cultura orientata sì alla performance ma anche alla tutela psicofisica del lavoratore.

È interessante notare che questa sindrome colpisce specialmente i giovani. Secondo una ricerca americana pubblicata su AdWeek, il 63% dei Millennials, nonché il 76% dei giovani appartenenti alla Generazione Z, provano ansia nel momento in cui devono affrontare l’argomento vacanze con il capo. “È molto semplice – interviene la Marchionno, spiegandone le cause -. Queste generazioni sono nate in un momento storico in cui c’è stata una richiesta di performance più alta (nascita lavori diversi, competizione maggiore) ma anche una maggiore precarietà nel lavoro, uno schema che ha portato all’affaticamento della persona e, purtroppo, anche ad una necessità di tenere il lavoro a tutti i costi. E ne hanno pagato le ferie.”

Il vacation shaming conosce poi diverse modalità di esecuzione. Ne sono due, quella diretta e quella indiretta, e le illustra la dottoressa: “La diretta comprende le azioni esplicite e visibili, di natura comportamentale o verbale che possono mettere in difficoltà la scelta delle persone. Avviene, per esempio, quando i colleghi o superiori rivolgono battute, commenti a chi si ferma dal lavoro, o semplicemente quando un superiore rifiuta la richiesta delle ferie. La indiretta si presenta attraverso dei commenti e delle azioni velate, come avvisare i colleghi che nei giorni a seguire il lavoro sarà ultra-impegnativo. Si chiede uno sforzo a tutti, perché il sottotesto è che non ci si può fermare. Ovviamente, dipende: questi casi non vanno letti in modo assolutistico, ma vanno contestualizzati. Altro esempio è quando alcuni collaboratori vengono premiati come stakanovisti, caso in cui passa il messaggio che se ti fermi ottieni di meno. Cambia il livello di esplicitazione, ma il vacation shaming resta a livello relazionale e percettivo”.

Quello che è certo, però, è che bisogna creare i presupposti per un ambiente sano che possa contribuire alla salvaguardia psicofisica dei suoi addetti. È necessario, conclude la Marchionno, stilare degli obiettivi e auspicare dei cambiamenti. “Bisogna intervenire sulla cultura organizzativa. Il vacation shaming è solo una delle tante manifestazioni delle organizzazioni che non si prendono cura dei propri lavoratori. Come sottolinea l’OMS nelle sue linee guida, occorre creare un ambiente in cui ognuno possa esprimere le proprie capacità, che possa essere inclusivo per le minoranze, prevenendo i rischi psicosociali, offrendo supporti psicologici e mettendo a disposizione figure terze super partes che risolvano le controversie”.

Le soluzioni specifiche possono essere diverse, conclude. “L’azienda potrebbe incoraggiare i dipendenti a disconnettere completamente i dispositivi quando vanno in ferie e attuare pratiche di organizzazione del lavoro in cui si chiarisca chi si prenderà carico del lavoro rimasto, anche per evitare al rientro un carico massimo. A livello individuale, invece, si può pianificare l’arrivo delle ferie impostando delle priorità e privilegiando i compiti di cui magari siamo gli unici a poterne occuparcene. Pianificare ci aiuta a evitare di arrivare con l’acqua alla gola, e poi a evitare di cercare di finire tutto prima di andare in ferie, vivendo tutte le attività come emergenziali e urgenti. Ha senso fare una fotografia, e saper delegare, ovviamente quando c’è un rapporto di fiducia e una vera necessità”.

La direzione è chiara. Oggi c’è sicuramente maggior attenzione alla salute mentale dei propri dipendenti perché si è intuita l’importanza di un equilibrio tra vita privata e professionale, oltre alla necessità umana di prendersi una pausa, pratica che implementa il benessere del lavoratore e dell’organizzazione stessa, che ne guadagnerebbe. Sarebbe un circolo virtuoso, rimarca la dottoressa. Senza dubbio.

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