La tropicalizzazione del clima sta investendo il Mezzogiorno con violente piogge e una torrida siccità, in un circolo vizioso in cui il caldo estremo si alterna a settimane, mesi di precipitazioni. È il risultato di una crisi climatica portatrice di grandi piccole rivoluzioni, e un’ultima è quella che si sta verificando nell’agricoltura. Secondo delle stime dell’Agenzia europea dell’ambiente, l’aumento globale delle temperature da qui ai prossimi 100 anni comporterà lo spostamento delle colture di 180 chilometri verso nord e di 150 metri di altitudine. Se è inevitabile che certe piante verranno penalizzate, ci sono altrettante alternative capaci di convivere con le mutate condizioni climatiche.
Partiamo dai dati espressi nel 2023 dalla Coldiretti e che riguardano tutta la superficie italiana. A cause delle alluvioni, grandinate e delle alte temperature sei pere su dieci sono scomparse dai frutteti, la produzione di ciliegie e miele è diminuita rispetto al 2022 di oltre il 60% mentre quella di uva di oltre il 10%. Si stima per la produzione agricola un danno di sei miliardi di euro. E partiamo anche da una novità grossa per l’agricoltura italiana: in Sicilia da settembre è iniziata la raccolta del mango, frutto tropicale per eccellenza. Secondo Coldiretti, negli ultimi 15 anni nella regione dove la raccolta di mango prosegue fino a novembre, il terreno coltivato ad arance è diminuito del 31%, quello dei mandarini del 18%, quello dei limoni addirittura del 50%. Puntare su prodotti esotici risulta quindi una strada tanto sostenibile quanto remunerativa.
Ma la febbre da mango non riguarda solo l’omonimo frutto, perché sempre in Sicilia sono iniziate colture significative di avocado, frutto della passione, litchi, zapote nero (frutto dell’America Centrale con una polpa sembra cioccolata), sapodilla (coltivata per la frutta dalla polpa simile alla pera, sia per il lattice) e la canna da zucchero (l’oro bianco importato dagli Arabi, dimenticato e ora ripreso). La Calabria, invece, ha avviato sperimentazioni sull’annona (frutto che ricorda un po’ la mela, la pera e la banana), sulla noce di macadamia (coltivata per uso alimentare e cosmetico), melanzana thay (thailandese, meno amara della varietà tradizionale). In Puglia a fianco a mango e avocado si sono aggiunte banane, lime, bacche di aronia (di aspetto simile ai mirtilli neri) e bacche di goji (rosse, tibetane, hanno grandi pregi nutrizionali e fitoterapeutici).
Alle colture che abbiamo conosciuto come mediterranee succede un’attesa emigrazione verso nord, ed è così che quasi la metà della produzione di grano e pomodoro proviene dal Nord Italia e in particolare dalla virtuosa Emilia-Romagna. Ancor più sorprendente come ora la nuova frontiera dell’olio d’oliva sia in Valtellina dove negli ultimi dieci anni si è passati da zero a circa diecimila piante su quasi 30mila metri quadrati di terreno. Questo cambia anche la qualità e la sensibilità del prodotto: è così, per esempio, che l’uva tende a maturare subito e ad essere molto più dolce.
D’altronde, le migrazioni assistite, quelle favorite dall’intervento umano, esistono già in tanti Paesi. In Canada hanno iniziato a piantare più a nord le specie che finora vivevano centinaia di chilometri più a sud, o fino a cento metri più in basso in caso di dislivelli, così che una volta i cambiamenti climatici diventeranno più severi si faranno trovare “pronte”.
È innegabile, per quanto riguarda il nostro Paese, che la disponibilità di frutta tropicale locale consente certamente un risparmio in termini di emissioni e inquinamento legato al trasporto considerando l’aumento vorticoso della domanda spesso insoddisfatta dell’offerta e che la produzione in loco permette il raccolto nel periodo di maturazione del frutto, al meglio delle proprie qualità organolettiche. Per i prodotti coltivati in Italia, anche con metodi biologici, i consumatori, quindi, sono anche disposti a pagare un prezzo più alto, obbligato dalla ancora scarsa produzione, rispetto alla frutta che ha attraversato l’oceano.
Tuttavia, è innegabile anche che persistano evidenti difficoltà in questa staffetta verticale di colture, dal momento che si tratta di coltivazioni che, nel caso delle tropicali, non resistono a temperature inferiori ai 4 gradi centigradi e che hanno bisogno di tanta acqua, soprattutto nei mesi più caldi. Più che adattamento alla crisi climatica, serve una strategia di mitigazione e contrasto che passi attraverso pratiche agroecologiche, metodo biologico e agricoltura di precisione, una corretta gestione dell’acqua, la tutela della biodiversità e della salute del suolo. A tal proposito, utile citare la Francia, in questa circostanza pioniera, che ha sperimentato l’incrocio di piante abituate a condizioni estreme con le specie presenti sul territorio: il risultato sono organismi flessibili e resistenti.