Dipinge il pregiudizio, Alfredo Troise. Quello che ha vissuto sulla sua pelle e che esprime attraverso gli occhi che contraddistinguono le sue opere. Pittore e scultore, scopertosi recentemente poeta, Troise crea bellezza dal suo calvario. I volti che scolpisce, gli sguardi che dipinge, sembrano urlarla la sofferenza.
“Io la vomito l’arte. Lei viene ed io eseguo”, dice. Definisce la sua vita una “via crucis”. E la sua croce è la sindrome di Tourette, un disturbo neurologico che provoca tic multipli e che gli ha causato il dolore che trasforma nelle sue creazioni. “Il dolore è stata la mia particella divina – afferma -. Senza il dolore non si va da nessuna parte”. La sindrome ha condizionato la sua vita, ha sviluppato la sua sensibilità e ha inevitabilmente influito sulla sua arte.
“La Tourette non dà tregua – racconta -. Non puoi rilassarti, perché esce fuori e tu devi domarla. È come cavalcare una tigre impazzita. E il problema è che tu invecchi e la Tourette no, quindi a un certo punto devi anche un po’ recluderti e devi selezionare anche i posti, le persone, perché non puoi relazionarti con tutti. È un disagio. E nonostante sia oggi più conosciuta, comunque qualcuno continua a non comprendere”. Per questo, Troise dice di avere 80 anni e non i suoi 45 anagrafici: “Con la Tourette diventi presto disincantato”.
Gli occhi che dipinge sono quelli del giudizio delle persone, che si è sentito addosso per anni, soprattutto nella sua gioventù. “Non si può immaginare quello che ho passato. Sono stato dilaniato dalla gente. A me mancavano anche le parole, perché mi sentivo additato. Sono stato additato dai miei parenti, figuriamoci dagli altri”. Quegli occhi che lo hanno straziato sono diventati la sua “poetica” nell’arte. “All’inizio erano quelli che mi giudicavano. Ora sono cambiati, perché mi riconoscono”, spiega.
Troise si racconta nella sua bottega di Arzano, dove vive tra sculture, tele, vernici e il profumo di oli essenziali. Da circa un anno si divide tra il comune di origine, nel Napoletano, e il borgo di Valogno, nel Casertano, dove ha aperto il suo secondo laboratorio ed è diventato caposcuola della ceramica valognese. Con la pandemia la sua attività non ha subìto alcuna battuta d’arresto. Anzi, dice di aver venduto il triplo. E per settembre è prevista anche la pubblicazione della sua prima raccolta di poesie.
Con il Covid il nuovo Umanesimo
Per Troise il Covid ha portato un nuovo Umanesimo. “Chi è morto ora (artisticamente), già lo era. Il Covid ha creato una linea di demarcazione, è stato in grado di far emergere gli artisti bravi”, è la sua idea. E per lui i valenti si contraddistinguono per la capacità di comunicare con le proprie opere. È convinto, poi, che con questa pandemia ritorneranno i salotti letterari di un tempo, che ormai si erano ridotti a salotti elitari. “Ritorneranno. E io farò di tutto, almeno nel mio piccolo, per contribuire”, afferma perentorio. Ritiene che uno slancio verso il loro rinascimento potrà arrivare anche dalla necessità dei locali notturni di offrire nuove esperienze agli utenti quando potranno riaprire.
In tal senso già si sta muovendo un bar di Arzano che dalla sua inaugurazione, a giugno scorso, espone le opere di Troise. “Il mio bar è al centro del triangolo della malavita e quando entrano determinati tipi di persone devono capire che cosa noi vogliamo offrire. è un modo per fare una selezione. Qualcuno apprezza le opere, qualcuno no”, spiega il titolare, Gianni Ferraiuolo. Il suo locale si trova nella nota rotonda di Arzano, crocevia per i comuni e i quartieri a nord di Napoli dove all’alba di ogni giorno decine di uomini originari dell’Africa aspettano qualcuno che arrivi ad offrirgli un lavoro. A coloro che attraversano il Mediterraneo per fuggire da guerra e povertà, Troise ha dedicato una sua opera che ritrae gli occhi del pregiudizio su un barcone carico di migranti. La discriminazione trova spesso rappresentazione nelle sue opere. In una tela i suo occhi sono rivolti a un angelo che rappresenta gli omosessuali e le persone con la sindrome di Down.
Vivere di arte
Troise ha scelto di vivere con l’arte, nonostante le prospettive poco rassicuranti che offre e l’opposizione che ha trovato inizialmente nei genitori . “Qui, dire di voler far l’artista equivale a fare outing”, sostiene. “L’artista purosangue viene sempre inchiodato alla croce, perché non viene capito. C’è chi ha la fortuna di essere poi riconosciuto e chi invece butta il sangue e fa la vita da povero per morire da ricco”, dice Troise. Ma da quando a 6 anni ha realizzato il suo primo disegno a mano non si è più fermato. Voleva barare copiando una figura e ora è uno degli artisti campani più noti nel panorama nazionale.
L’arte è “genetica”. Non le si può sfuggire. La definisce “una dea gelosa”: “Ti mette alla prova, devi essere anche capace di accoglierla”. “Fare l’artista – sostiene – è la scelta più coraggiosa che un uomo o una donna possa fare, perché veramente è impossibile in un mondo che non ti supporta”. Un mondo in cui l’artista spesso vive in condizioni di povertà, perché non riesce ad essere riconosciuto e perché l’arte, la cultura, non ottengono il sostegno istituzionale necessario. “Lo Stato li teme gli artisti – è il pensiero di Troise -. Cosa hanno chiuso in questo periodo? L’arte, la cultura, la scuola, che sono le tre locomotive trainanti per uscire da qualsiasi problema. È una modalità per tenerci a bada. L’artista si porta sempre persone dietro e se si coalizza è un problema. L’arte fa paura. Gli artisti vengono volutamente tarpati”.
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