Fonte foto: Unicef

Continuano i combattimenti nella capitale del Sudan, Khartoum, tra l’esercito e le forze paramilitari di supporto rapido (RSF), nonostante una serie di cessate il fuoco temporanei che, a quanto pare, non sono serviti. I militari dell’esercito regolare continuano a colpire con attacchi aerei nel tentativo di indebolire RSF. Pesanti combattimenti hanno avuto luogo anche nel Darfur, nel Sudan occidentale.

Lunedì, l’inviato speciale delle Nazioni Unite in Sudan, Volker Perthes, ha dichiarato all’agenzia di stampa Ap che le due parti avevano concordato di avviare colloqui per negoziare un cessate il fuoco “stabile e affidabile”, aggiungendo che l’Arabia Saudita sembrerebbe essere una potenziale sede per i colloqui. Se i colloqui avranno luogo, sarebbe il primo incontro tra le due parti dall’inizio del conflitto.

Ad aggiornarci sulle condizioni del paese è il direttore regionale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), Ahmed alMandhari: ha dichiarato alla Bbc che le strutture sanitarie sono state attaccate a Khartoum e alcune vengono utilizzate come basi militari. “Fino ad ora sono stati segnalati circa 26 attacchi alle strutture sanitarie. Alcuni di questi attacchi hanno provocato la morte di operatori sanitari e civili in questi ospedali”, ha aggiunto alMandhari.

C’è chi pensa che questa guerra potrebbe espandersi. Come l’uomo d’affari e filantropo sudanese Mo Ibrahim che ha comunicato alla BBC che il paese si trova in una guerra civile, e che non deve essere permesso che il conflitto venga esteso oltre i suoi confini e che quindi diventi regionale.

L’esercito sudanese ha sollecitato le persone che si trovano a Khartoum di rimanere in casa e stare lontano dalle finestre. Nel contempo, però, schiera carri armati e altra artiglieria nel tentativo di riconquistare le aree detenute dalle RSF.

Sarebbero più di 500 le persone che sono state uccise e più di 4.000 quelle che sono state ferite nei combattimenti, a riportare i dati è il ministero della salute del Sudan. L’Onu, invece, ha dichiarato che più di 100.000 persone sono fuggite dal Sudan da quando hanno avuto inizio gli scontri il 15 aprile. Altre 334.000 persone sono state sfollate all’interno del Sudan.

La portavoce dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, Olga Sarrado, ha detto ai giornalisti a Ginevra che il totale di 100.000 includeva persone provenienti dal Sudan, cittadini sud sudanesi che tornavano a casa e persone che erano già rifugiati all’interno del Sudan in fuga dai combattimenti. I rifugiati sono fuggiti anche attraverso il confine del Sudan con l’Egitto a nord e il Ciad a ovest.

La problematica dei profughi

In città ormai manca di tutto. I servizi di base, come l’acquedotto e la rete elettrica, sono interrotti perché i tecnici addetti alla loro manutenzione non hanno potuto raggiungere il posto di lavoro. Milioni di persone, dunque, rimangono intrappolate a Khartoum, dove oltre all’acqua e all’energia elettrica, mancano cibo e carburante. Mentre tantissime altre persone tentano disperatamente di salire a bordi delle navi, alcune delle quali sono dirette in Arabia Saudita e Yemen.

Sono tra le 10 e le 20mila le persone, per la grande parte donne e bambini, che hanno passato il confine con il Ciad, aggravando la grave situazione umanitaria nel paese. Migliaia di persone stanno lasciando le proprie case in diversi stati del paese. Solo ad El Obeid, ad esempio, sono fuggite tra le 7.500 e le 8mila persone. Ci sono migliaia di sfollati anche negli stati del centro del paese: El Gezira, Sennar, Nilo Bianco, Fiume Nilo e El Gedaref. Ma la situazione è particolarmente critica nella capitale, Khartoum, che, insieme alle città di Omdurman e Khartoum Nord, conta circa 4 milioni di abitanti.

Il problema dei passaporti

Non tutti riescono a lasciare il Paese. Un certo numero di cittadini sudanesi, infatti, non riescono a sfuggire ai combattimenti nel loro Paese perché i loro passaporti sono chiusi all’interno delle ambasciate europee. Questo perché i passaporti erano in fase di elaborazione per i visti europei quando è scoppiata la guerra. I diplomatici occidentali sono stati evacuati senza restituire i passaporti e ora le ambasciate sono chiuse.
La Bbc riporta alcune testimonianze di persone che hanno trattato questa tematica, come quella di Mohamed Elfadil, 30 anni, che ha rivelato che stava programmando una vacanza in Spagna e stava aspettando il suo visto quando è scoppiata la guerra. Elfadil ha raccontato la sua telefonata al numero di emergenza dell’ambasciata spagnola a Khartoum per chiedere indietro il suo passaporto: “La donna che ha risposto mi ha chiesto ‘Sei sudanese o spagnolo?’. Quando le ho detto che ero sudanese ha riattaccato immediatamente”.

In campo scende il ministero degli Esteri spagnolo, che ha dichiarato alla Bbc: “L’ambasciata ha chiuso la sua attenzione al pubblico e, dopo l’evacuazione, non c’è più la possibilità di accedervi, tra le altre ragioni a causa dell’enorme rischio per la sicurezza”. Poi ha aggiunto: “Le persone che hanno lasciato il loro passaporto lì sono state invitate a ottenere un altro documento di viaggio dalle autorità sudanesi”. Nel mirino anche l’ambasciata di Svezia a Khartoum che è accusata di non aver restituito i passaporti prima di evacuare il proprio personale. Inoltre, ci sono preoccupazioni anche in merito alla chiusura di un centro di richiesta visti del Regno Unito nella capitale.

Gli aiuti a Khartoum

Pochi stranieri hanno deciso di rimanere nel territorio preso di mira, tra loro anche gli operatori di Emergency, che conta una quarantina di persone. L’organizzazione gestisce un centro di cardiochirurgia a Khartoum e tre ospedali: a Nyala, in Darfur, a Port Sudan nello stato del Mar Rosso, e a Mayo, alla periferia di Khartoum, per ora non operativo a causa dei combattimenti nella zona. Anche Medici senza Frontiere ha deciso di continuare le operazioni nel paese. La popolazione, presa tra due fuochi, ha un bisogno estremo di soccorso medico.

Il sistema sanitario

Secondo Il Comitato centrale dei medici sudanesi (Ccsd), 39 su 59 ospedali della città e dei dintorni sono chiusi, molti perché sono stati danneggiati nei combattimenti, alcuni addirittura deliberatamente distrutti e saccheggiati, altri perché a corto di personale e di farmaci. Nessuno è in grado di fornire i servizi che dava prima dello scoppio della crisi. Particolarmente a rischio sono i feriti che spesso non riescono a raggiungere neppure i pochi presidi sanitari ancora funzionanti.

La resistenza giovanile

Molti sudanesi si sono mobilitati per aiutare i loro concittadini, comunicando attraverso l’utilizzo dei social media. Sono stati creati gruppi Whatsapp, Twitter, pagine Facebook che offrono cibo, ben sapendo che in molte case sono finiti i rifornimenti. Molti aiutanti sono giovani dei comitati di resistenza popolare, i gruppi che hanno tenuto viva la mobilitazione che ha portato alla caduta del regime di Omar El-Bashir e si e opposti al golpe militare del 25 ottobre 2021.

Ebbene è iniziato tutto allo scoppio dei combattimenti, sabato 15 aprile: si sono passati la parola di tenersi pronti a fare il necessario per sostenere la popolazione civile e per diffondere lo slogan “No alla guerra”, per chiarire molto bene ai due che si contendono il potere a suon di bombe da che parte sta la gente.

Gli aiuti vengono anche dalla diaspora che si è attivata immediatamente per raccogliere fondi e beni da spedire nel paese. L’organizzazione dei medici sudanesi nel Regno Unito, ad esempio, ha raccolto in brevissimo tempo 9mila sterline che manderà all’organizzazione dei medici a Khartoum per acquistare medicinali per gli ospedali.

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