Pochi posti letto nelle case rifugio, in contrapposizione all’indicazione della Convenzione di Istanbul che ne fissa uno ogni 10.000 abitanti. Scarne risorse economiche messe a disposizione dallo Stato per i progetti di tutela. Un’eccessiva farraginosità procedurale per il raggiungimento di una piena autonomia. Sono questi alcuni dei principali ostacoli all’affrancamento dalle situazioni di violenza fisica, psicologica, economica subìte dalle donne in Italia. Nel 2023, sino al 3 dicembre, le donne uccise perché vittime di violenza di uomini sono ben 109.

Di questi temi abbiamo parlato con la cooperativa sociale Dedalus, con sede a Napoli, che gestisce due centri antiviolenza: uno nel capoluogo e un altro in provincia, a Mugnano di Napoli, in un bene confiscato alla camorra. La cooperativa si occupa anche di due case per donne maltrattate in località protette, Fiorinda e Casa Karabà, una di queste sempre in una struttura prima in uso alla criminalità organizzata, con 12 posti letto in totale e tutti attualmente occupati.

“Siamo però ben lontani dai parametri della Convenzione di Istanbul sui posti che dovrebbero essere messi a disposizione. E’ un trend che riguarda tutta l’Italia’’, sottolinea la dirigente della Dedalus, Tania Castellaccio, che auspica un “aumento del numero di case rifugio sul territorio per favorire sempre di più la garanzia dei servizi di protezione per le donne vittime di maltrattamenti’’.

I numeri dei centri antiviolenza e case in Italia

Secondo i dati Istat, al 2022 si sono contati in Italia 385 centri antiviolenza, così distribuiti: il 37,9% nel Nord (22,1% nel Nord-ovest e il 15,8% nel Nord-est), il 31,4% nel Sud, il 20,8% nel Centro e il restante 9,9% nelle Isole. Oltre il 99% ha aderito al numero nazionale di pubblica utilità 1522 e il 74,5% con una reperibilità telefonica “h24”. Inoltre, nel corso del 2022 sono state poco più di 26mila le donne che hanno affrontato il percorso di uscita dalla violenza con l’aiuto dei centri. Il 77,7% ha iniziato il percorso nel 2022, il 18% nel 2021 e poco meno del 5% da due anni.

Le case rifugio, stando alla ricerca di Di.Re (Donne in Rete contro la violenza), nel 2022 hanno raggiunto i 1006 posti distribuiti in 198 appartamenti in tutta Italia, con mediamente 3 appartamenti e una media 16,2 posti letto con dati stabili rispetto al 2021. Questa la distribuzione sul territorio nazionale: 29% Nord-Est; 27,4% Nord Ovest; 12,9% al Centro; 9,7 al Sud; 21% sulle Isole. Anche Di.Re ha evidenziato nel suo report che “il numero dei posti letto risulta ancora insufficiente, tanto è vero che non è stato possibile mettere in sicurezza 361 donne’’.

La convenzione di Istanbul

A firmare la Convenzione d’Europa, propriamente detta Convenzione di Istanbul, tutti i Paesi membri dell’Unione Europea. La ratifica è avvenuta nel giugno 2023, con protagonisti 38 Paesi, in totale 37 dell’Unione. L’approvazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa avvenne il 7 aprile 2011, con la successiva firma a Istanbul l’11 maggio 2011. In totale sono 38 i Paesi, 37 dell’Unione Europea, ad aver aderito. L’ Italia la firma l’ha apposta il 27 settembre 2012 e la ratifica risale al 10 settembre 2013. L’entrata in vigore è datata 1 agosto 2014.

La denuncia della cooperativa

Tania Castellaccio ricorda: “Ad oggi, nel 2023, i dati Istat ci dicono che ogni 3 giorni una donna muore perché maltrattata dal partner o dall’ex partner. Inoltre, una donna su 3 ha almeno una volta subìto maltrattamenti. Se vogliamo intervenire in termini risolutivi – è il ragionamento della dirigente di Dedalus – non si può pensare di destinare soltanto poche decine di milioni di euro l’anno a livello nazionale per contrastare il fenomeno’’. In proposito basti ricordare come nel Dpcm del 22 settembre 2023, in relazione al riparto dei fondi per il contrasto alla violenza contro le donne, sono stati appostati 30 milioni destinati ai centri e le case rifugio.

“Siamo lontanissimi da quanto servirebbe. Dovremmo uscire dal principio secondo cui un’operatrice sociale dell’antiviolenza che si occupi di fragilità e disagio debba continuare a non essere retribuita, si tratta di un problema che riguarda tutto il terzo settore’’, commenta Castellaccio, che tiene a rievocare come i centri antiviolenza siano “nati dal basso, grazie ai movimenti di difesa delle donne. Sono strutturati come luoghi di militanza e devono essere sostenuti’’.

La differenza di retribuzione

La questione dei maltrattamenti e della mancata tutela delle donne è anche economica. “Noi donne, a parità di funzione e di livello istruzione – afferma la Castellaccio – continuiamo a guadagnare il 20% in meno degli uomini, accediamo meno agli straordinari al lavoro perché prendiamo più congedi parentali. Si calcola che in Italia siano ben 5 le ore non retribuite per attività che io svolgo prendendomi cura della mia famiglia’’. Restano aperte le questioni delle leggi per il contrasto alle violenze sulle donne e del percorso che dovrebbe portare alla riappropriazione del proprio futuro le donne picchiate, vessate, umiliate dai partner.

È ancora la dirigente della Dedalus a lanciare l’allarme: “Il decreto sul Femminicidio rafforzato, il braccialetto elettronico, l’inasprimento della pena, sono provvedimenti utili, ma non basta. C’è sempre la stessa solfa: i media che parlano di raptus, i tribunali che a fronte di donne che denunciano maltrattamenti dispongono la valutazione delle competenze genitoriali sulla donna, (a proposito di donne che non vengono credute dalle istituzioni, dagli amici, dalla famiglia’)”.

Secondo Castellaccio, “il reddito di libertà (che prevede l’erogazione di un assegno mensile fino a 400 euro per un periodo massimo di un anno, ndr.) è una misura interessante ma è insufficiente. Stiamo continuando anche noi con le richieste, ma non ci sono più le risorse e così i tempi di permanenza nelle case di accoglienza si allungano. Manca l’autonomia economica che consentirebbe di prendere un alloggio in affitto da sola. Per l’assegnazione della casa coniugale una donna può aspettare 2 anni’’. Importante, dunque “è l’inserimento lavorativo o comunque un sostegno al reddito’’, come importante è “sostenere i figli delle donne vittime di violenza. Va ricostruito il rapporto madre-figlio e garantita la cura di un bambino traumatizzato per aver assistito alla violenza subìta dalla madre’’.

La cooperativa Dedalus, insieme alle associazioni Salute Donna, Maddalena, Arci Donna, Le Cassandre, Dream Team e Donne in Rete, dal 1 gennaio al 2023 sul territorio napoletano ha accolto 615 richieste di denunce: l’87% di chi si è rivolto agli sportelli è di nazionalità italiana, il 13% è composto da donne provenienti da altri Paesi Europei o extraeuropei. Rispetto alle fasce d’età, quasi il 60% è compreso tra i 30 e i 50 anni, il 40% o è giovanissimo o è anziana con violenze, in questo caso, durate anche per decenni.

Lo Stato che deve tutelare

Castellaccio, riconoscendo che “le donne vittime di violenza chiedono aiuto di più rispetto al passato’’ esorta lo “Stato a offrire protezione e sostegno. Altrimenti diventa complice. Se oggi la donna si può ribellare ma non c’è tutela, il partner si scatenerà contro di lei. Quante volte ancora oggi le donne non vanno fino in fondo perché temono di non poter accudire i figli da sole e giustificano il partner violento perché nervoso per il lavoro?’’. Ciò che se ne ricava è agghiacciante.

Delle 615 donne che hanno chiesto aiuto alla rete di cui fa parte Dedalus, il 70% ha detto di aver subìto una violenza fisica e ben il 94% di aver subìto violenza psicologica, ossia: denigrazione, svalutazione, isolamento sia dagli amici che dalla famiglia, svalutazione dinanzi ai figli. Tania Castellaccio di Dedalus è rammaricata. “Nelle case di accoglienza ospitiamo ragazzini di 10-11 anni che trattano la madre in modo svilente e usano lo stesso linguaggio del padre maltrattante. Questo è l effetto della trasmissione intergenerazionale della violenza. Da un lato i bambini normalizzano la violenza come modello, arrivando a identificarsi con il genitore più forte, da cui in definitiva dipende la sopravvivenza dell’intero nucleo, dall’altro lato questo meccanismo è potenziato dalla cultura patriarcale in cui viviamo e in cui stereotipi, modelli culturali e linguaggio determinano la diffusione di una mentalità e quindi di comportamenti improntati all’asimmetria di genere. Anche chi subisce violenza infatti interiorizza questi modelli culturali e tende a giustificare la violenza, ad accettarne le giustificazioni e a spostare le responsabilità sulla vittima che nel migliore dei casi non è stata in grado di fermare la violenza”.

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