Anna per un tempo che le sembrava infinito ha sopportato dal partner non solo le botte, ma anche il ricatto psicologico di un ipotetico rimpatrio in caso di addio al suo maltrattante. Sandra, per non disgregare l’unità della famiglia, in realtà già compromessa, è stata costretta ad accollarsi i debiti del marito che con piena disinvoltura ha acceso prestiti a suo nome perché in possesso dei suoi documenti. Differenti forme di violenza – fisiche, emotive, economiche – ma con un’unica conseguenza: sofferenza, disagio in donne incolpevoli che con estrema difficoltà si sono costruite un avvenire, dimostrandosi alla fine più forti di tutto. Di queste due storie siamo venuti a conoscenza grazie alla cooperativa sociale Dedalus, di Napoli, che ha seguito entrambe le donne protagoniste di queste storie, accompagnandole verso una vera e propria rinascita. Qualche dettaglio, per motivi di privacy, sarà più sfumato e, ovviamente, i nomi delle due donne sono di fantasia.

Le percosse e le minacce

Anna proviene da un Paese dell’Est Europa. Appena approdata in Italia, la sua priorità è trovare un impiego per stabilizzarsi. In provincia di Napoli comincia a lavorare come badante, un viatico per il futuro. È in questo periodo che conosce un uomo, che diverrà il suo partner ma che si trasformerà nel suo peggiore incubo. Le botte arrivano quasi subito, sono quotidiane. Nemmeno la gioia dell’arrivo di un figlio riesce a sottrarla dalla violenza del padre del bambino. La furia, di chi evidentemente non l’ha mai amata, è così cieca che Anna rimedia addirittura la perforazione di un timpano dopo un pugno. Ma la sofferenza non si manifesta soltanto sotto forma di lividi. Per condizionare e soggiogarla, il compagno ricorre a un mezzo davvero meschino: tenta di convincerla che, se l’avesse lasciato o denunciato, sarebbe stata rimpatriata, perché era stato lui ad averle dato la possibilità di stare in Italia regolarizzando la sua posizione di cittadina.

Anna, stanca di quell’inferno, decide di denunciare ai carabinieri quanto subisce ormai da troppo tempo. Di primo acchito, però, stando al racconto poi fornito dalla donna, i militari dell’Arma l’avrebbero sì tranquillizzata ma rimandata a casa senza raccogliere la denuncia. A quanto pare, la non perfetta padronanza dell’italiano da parte di Anna rappresenta in quel frangente un ostacolo per l’esposizione chiara e completa del dramma che sta vivendo. Successivamente la donna ci riprova, recandosi questa volta dai carabinieri accompagnata dai servizi sociali, affidando temporaneamente suo figlio alla nonna. È solo in questo momento che scatta davvero formalmente la denuncia.

Anna riesce ad accedere a Casa Karabà, una delle due case per donne maltrattate gestite dalla cooperativa sociale Dedalus. È l’inizio di un percorso per raggiungere l’arcobaleno della serenità, ma quanto subìto per ben 5 anni lascia inevitabilmente strascichi sulla psiche. La donna è addirittura convinta che l’accoglienza nella struttura sia in realtà una trappola proprio per rimpatriarla. Per fortuna, non è così. Racconta Tania Castellaccio, dirigente di Dedalus: “In un anno siamo riusciti a fare avere ad Anna l’affidamento del bambino, con cui ha ricostruito pienamente il rapporto. Ora ha un contratto regolare di lavoro e può permettersi l’affitto di una casa rispettando tutti i parametri’’. Castellaccio fa poi un’altra riflessione, utile a capire da dove derivi il comportamento degli uomini violenti. “La gravidanza rappresenta la massima della potenza della donna e anche il momento nel quale teoricamente la donna necessita di maggiore attenzione, perché porta in grembo un figlio. In questo caso, l’uomo si sente leso nel suo potere’’.

La dirigente della Dedalus si sofferma proprio sulle problematiche delle donne migranti, come Anna e non solo. “Non essendo a conoscenza dei servizi presenti sul territorio, non sanno come liberarsi – afferma Tania Castellaccio – In molte occasioni queste donne vivono la violenza razziale, temono di non poter esercitare il proprio diritto e dunque sono meno inclini a chiedere aiuto’’. In più, “molte donne migranti sono strettamente legateò, per il proprio permesso di soggiorno, al partner che le maltrattano. Tante donne arrivano in Italia per il ricongiungimento familiare o per sposarsi con un italiano. Tutto questo diventa un ricatto per il permesso di soggiorno, legato al posto di lavoro, e per l’affidamento dei minori’’.

Il condizionamento economico

Sandra si è costruita la sua posizione lavorativa grazie alle sue capacità. A rovinare tutto, l’egoismo di un partner che sembra non accorgersi della fortuna che ha di condividere la vita con una persona brillante. Il fiato sul collo di Sandra è pesante, assillante. Il compagno, che non ha la stessa stabilità economica, sovente controlla lo scontrino dopo che lei abbia fatto la spesa. Fa lo stesso addirittura con lo stipendio di Sandra. Agli operatori della Dedalus che prendono in carico il suo caso, la donna racconta che per tenere saldo l’idillio familiare, la relazione di coppia e la serenità del loro bambino, nel corso di un decennio ha acceso una quantità di prestiti per coprire i debiti del partner. Per non farsi mancare niente, quando ormai la separazione è in atto, l’uomo attiva a nome di Sandra delle finanziarie per l’acquisto di diversi I-Phone, visto che è in possesso dei documenti di Sandra.

Afferma sempre Tania Castellaccio della Dedalus, con la cooperativa che anche in questo caso è riuscita a incidere positivamente: “Sandra ha avuto l’affidamento esclusivo della bambina e ha troncato la relazione, ma resta la coda lunga della violenza economica. Tutti i prestiti che ha dovuto accendere su pressione del maltrattante – ricorda – li dovrà pagare lei. Addirittura, per 10 anni, sarà costretta a versare il quinto del suo stipendio”. Anche qui arriva una proposta: “Si dovrebbe prevedere un accordo tra le banche, gli istituti di credito e i centri antiviolenza affinché, dove ci sono violenze di questo tipo, si possano attivare strumenti di sostegno economico’’.

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