Lo stigma di essere considerato dall’esercito comunista jugoslavo di Tito solo e soltanto un italiano fascista di cui sbarazzarsi, in un modo o in un altro. La sofferenza per un lungo viaggio alla ricerca di un posto dove vivere e rifarsi una vita, ricostruita con non poche difficoltà. Paolo Roitz è un signore di 93 anni ancora nel pieno delle sue forze, fisiche e mentali. Nato e cresciuto a Fiume, oggi conosciuta come Rijeka, terza città croata di oltre 100.000 abitanti dopo Zagabria e Spalato, ha provato sulla sua pelle la condizione di esule dai territori della Dalmazia, dell’Istria, della Venezia Giulia alla fine della Seconda Guerra Mondiale conclusasi nel 1945.

“Dopo settant’anni finalmente si parla di noi”, afferma di primo acchito Paolo, che oggi vive nell’area collinare di Napoli, città che ha raggiunto nel 1948 stabilendosi con i suoi familiari nell’enorme campo profughi sorto all’epoca nel quartiere napoletano di Capodimonte, in un periodo di fame e povertà. Proprio a Capodimonte, oggi, c’è una targa in memoria degli esuli dalmati e istriani voluta dal Comune di Napoli.

Le foibe e l’esodo

Qualche cenno storico. I “titiani’’, di fede comunista, considerano gli abitanti di quel lembo di terra contesa tra Italia e Jugoslavia come seguaci del Fascismo dei quali vendicarsi per l’appoggio ai desideri di espansione anche nei Balcani del dittatore fascista Benito Mussolini, alleato della Germania nazista di Adolf Hitler. La controversa pagina di storia, su cui ancora si dibatte con un’enorme contrapposizione politica tra sinistra e destra, è quella delle Foibe. La Giornata del Ricordo “in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano – dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati”, si celebra ogni anno il 10 febbraio. A istituirla, nel 2004, l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Secondo alcune stime – ma la certezza numerica è ancora lontana dall’essere tale – tra i 3000 e i 5000 italiani (per alcuni studiosi potrebbero essere persino il doppio) vengono uccisi o portati alla morte dall’esercito del maresciallo Tito. Molti di essi, si narra, vengono gettati dai dirupi ancora in vita. Tante anche le testimonianze, molte delle quali non emersero subito, di uccisioni sommarie, esecuzioni, stupri, torture perpetrate da parte dei soldati jugoslavi al crepuscolo del potere nazifascista tra il 1943 e il 1947 (a guerra già finita da 2 anni).

L’abbandono di Fiume

Fiutato il pericolo, a metà degli anni ’40, tra i 250.000 e i 350.000 italiani della Dalmazia, dall’Istria, dalla Venezia Giulia fuggono per salvare le proprie vite. Tra loro c’è anche Paolo Roitz, oggi 93enne, che domenica 25 febbraio ha partecipato insieme ai familiari di altri esuli alla giornata del Treno del Ricordo alla Stazione Centrale di Napoli (con il convoglio delle Ferrovie dello Stato ricreato com’era all’epoca partito poi per la Puglia) voluta dal Governo italiano.

“Il famoso maresciallo Tito – afferma Paolo, che conserva un accento friulano nonostante viva da tanto a Napoli – ci diede un calcio nel sedere perché voleva dimostrare alle Nazioni Unite che in Istria, in Dalmazia e nel Venezia Giulia, che considerava parte della Jugoslavia Comunista, non c’erano più italiani”.

Il ricordo di Roitz del lungo peregrinare è vivido. “Le truppe di Tito sono entrate a Fiume il 3 maggio del 1945. Una settimana più tardi mio padre, impiegato in un cantiere navale proprio nella città di Fiume in cui sono nato, venne arrestato dai militari. A tradirlo fu un collega croato che fece la spia ai comunisti indicando mio padre come un seguace fascista. Questo fa capire l’odio verso noi italiani che vivevano in quei luoghi”.

A soli 14 anni la vita di Paolo viene sconvolta: “Quando mio padre fortunatamente riuscì dopo 5 mesi a tornare dal campo di concentramento in cui fu confinato dai comunisti di Tito, lasciammo Fiume per sempre contro la nostra volontà. Mio papà non aveva più un lavoro e noi in pratica non avevamo più una casa. Fu terribile”. Prima di proseguire nel racconto chiediamo a Paolo se avesse mai abbracciato l’ideologia fascista, visto che molti istriani, fiumani e dalmati venivano considerati tali da chi obbediva a Tito. Risponde così: “Io è logico che sono stato fascista, se non lo fossi stato non avrei potuto frequentare la scuola o andare a lavorare. In Italia sino al 1943 eravamo tutti fascisti, poi dopo la caduta di Mussolini non lo era più nessuno, divennero tutti antifascisti”.

Le varie tappe in giro per l’Italia

In marcia con dei mezzi di fortuna insieme ai genitori, Paolo fa diverse tappe a cavallo tra il 1946 e il 1947. Prima Trieste, poi Udine, due città dove passa dei periodi complicati perché l’Italia porta ancora i segni dei combattimenti: il lavoro scarseggia, il cibo anche. Così sopravvivere è dura. Ecco allora che Roitz e i suoi familiari si rimettono in viaggio scendendo lo Stivale portandosi dietro lo stretto necessario. “Le autorità ci posero davanti due scelte: o Gaeta o la città di Barletta. Scegliemmo Gaeta, nonostante fosse devastata dalla guerra”. Ma il soggiorno nella cittadina del Basso Lazio non è proprio confortevole. Tutt’altro. “Ci assegnarono un posto all’interno di un convento. Ma non avevamo mica una stanza… vivevamo con altre tantissime persone in un grosso salone. Cosa avevamo? Soltanto un pagliericcio e una coperta. Fu dura trovare da mangiare”.

Ma anche a Gaeta non poteva durare tanto, viste le condizioni di promiscuità. Prosegue nel racconto Paolo: “Mio padre venne a sapere che altri esuli di Fiume avevano trovato riparo in questa grossa area profughi di Capodimonte. Dopo diverse richieste e non poche difficoltà ci andammo”. Ma a Capodimonte non l’aspettava di certo un appartamento con vista mare o una villa con piscina. “Nel modo più assoluto – conferma Roitz – ci assegnarono una delle migliaia di baracche di metallo costruite dagli americani di stanza in Italia in quel periodo e occupate da persone poverissime. Era il 1948, io avevo 18 anni. Avevamo luce e acqua e nulla più. I posti migliori erano riservati agli impiegati comunali, noi invece come sempre vivevamo alla giornata”.

Paolo a questo punto fa un gesto inequivocabile: si porta la mano sulla pancia come per dire “fame”. “E la fame che avevo all’epoca mi costrinse a fare i lavori più umili per sostenermi. Tra i mille impieghi, andavo in giro per Napoli a distribuire il pane a chi ne aveva diritto grazie alla tessera annonaria”. Paolo Roitz riesce poi a costruirsi una posizione indipendente, nel pieno del boom economico degli anni ’50 e ’60, trovando un impiego fisso nella compagnia telefonica nazionale, quella conosciuta oggi come Telecom. Con quel lavoro acquista una casa nell’area collinare nella zona dell’Arenella e acquisisce una certa indipendenza economica.

Nel frattempo ha sempre voluto testimoniare cosa successe ai dalmati, agli istriani e ai fiumani anche per eludere quella cappa di indifferenza calata su di lui e sugli altri. E continua a fare memoria ancora oggi, a ben 93 anni ben portati. “Siamo rimasti in pochi ancora in vita a raccontare le sofferenze del nostro esodo – conclude – Per cinquant’anni siamo rimasti muti perché avevamo quasi paura a dire di essere fiumani d’Italia, considerati fascisti. Ma quanto sofferto a causa di Tito, che in ex Jugoslavia qualcuno ancora rimpiange, non lo posso dimenticare e la nostra storia va narrata per fare memoria. Da vent’anni ci sentiamo meno soli, ma il dolore resta dentro».

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