Un progressivo ritorno all’esistenza, oltre l’oblio della mera carcerazione, grazie all’inserimento in progetti di impegno concreto. Giacomo e Anita (nomi di fantasia), attualmente due detenuti in regime di semilibertà, hanno vissuto sulla propria pelle le storture del sistema penitenziario italiano. Sistema che ancora oggi fornisce pochissime occasioni di reinserimento nella società a chi deve saldare un debito con la giustizia.

Il recupero di Giacomo

Giacomo ha conosciuto gli ambienti di diversi penitenziari italiani. Da metà del 2023 si occupa di manutenere il verde presso la cooperativa l’Uomo e il Legno del quartiere napoletano di Scampia. Non si pone obiettivi a lungo termine, essere all’esterno del carcere per una parte della giornata dopo tantissimi anni lo porta soltanto a godersi il momento. “Vivo giorno per giorno. Mi sto svegliando soltanto adesso, vedremo più avanti cosa il futuro ci riserverà. La mia vita comincia ora”. Giacomo si sente come “quei bambini che gattonano e che stanno per esplorare il mondo”. Gli anni in carcere sono stati per lui problematici. “Conosco bene il sistema carcerario e quello di sorveglianza”, dice Giacomo. “Vista anche la situazione delle carceri italiane, che non era e non è delle migliori, mi sento fortunato ad aver avuto questi benefici attraverso l’Uomo e il Legno. Non tutti riescono ad accedervi’’, afferma.

Giacomo sceglie una metafora per confermare quanto un detenuto possa sentirsi isolato una volta dietro le sbarre: “In ospedale vai per curarti, per essere operato o per riparare a un errore di un medico. Ma se non ti curano, rimani da solo con te stesso. E lasciare un uomo con se stesso in una cella significa abbandonarlo. Qualcuno riemerge, altri no”. “Molte persone – aggiunge – si lamentano quando qualcuno viene fatto uscire dal carcere nonostante diversi reati commessi. Faccio però una domanda: in tutti questi anni il sistema carcerario cosa ha fatto fare a quel detenuto? Cella, passeggio nelle ore d’aria e poco altro. Ci vorrebbe un numero maggiore di corsi e di opportunità di recupero. La società deve entrare nelle carceri, dialogare con i detenuti. Il sistema carcerario ti mangia, ti ingurgita’’. Ora il suo presente è fatto di taglio dell’erba, cura delle aiuole, preparazione del terreno per le coltivazioni, la cura della sede de l’Uomo in Legno in viale della Resistenza a Scampia. La strada è lunga per Giacomo, ma il buio che accompagna il suo percorso sembra ora meno fitto.

Le speranze di Anita

Anita, condannata per un cumulo di pena, è riuscita ad avere la semilibertà circa un anno fa. Per lei è doloroso rievocare il periodo in cui ha sbandato, ma è tenace e non si tira indietro. “Dovevo accudire i miei figli, pagare le utenze, l’affitto. C’erano parecchi ostacoli da superare, in molte occasioni combattevo da sola contro l’inferno. Soltanto per questo motivo ho commesso i reati per cui sono stata condannata’’. Anita non sembra aver superato il trauma degli anni in carcere e senza indugio afferma: “Psicologicamente non sto bene, in carcere avevo legato unicamente con le educatrici ma molto meno con gli psicologi. Quando sono entrata per la prima volta nella struttura penitenziaria – rivela – mi sono ritrovata in una stanza con una decina di persone: una sensazione indescrivibile insieme a quella del primo colloquio con i familiari. All’inizio la convivenza è stata durissima. Ho fatto di tutto per non perdere il mio equilibrio mentale, evitando di litigare. Volevo mantenere la tranquillità ma di persone con la testa calda ce n’erano parecchie’’.

Per non fiaccare lo spirito, Anita riesce ad ottenere un incarico accedendo all’articolo 21, che regolamenta le modalità per un detenuto di essere inseriti in varie attività. “Pulivo le stanze del direttore e dell’amministrazione del carcere, mi occupavo di portare il vitto e del servizio di lavanderia. In questi momenti era come se mi sentissi libera e non come una persona che doveva scontare una pena in carcere. Almeno rientravo tardi in cella, ci stavo poco. Era una bella sensazione’’. Ma questo ad Anita non basta. Vuole affrancarsi del tutto dal mondo della detenzione, per quello che la giustizia le può offrire, vista la condanna ancora in essere. Riesce ad ottenere nel 2023 la semilibertà: fuori dal carcere alle 7 del mattino e rientro per la notte alle 22. Qualcosa, però, va storto e ciò le causa un trauma. “Ero impegnata a seguire un corso dopo due settimane dall’ottenimento della semilibertà e qualcuno mi accusò impropriamente di fumare hashish insieme ad altre detenute’’. Anita giura e rigiura: “L’accusa era ingiusta, non ho mai consumato droga. Se mi avessero sottoposta al test tossicologico lo avrebbero appurato”. Invece, sostiene Anita, “nessuno l’ha mai disposto’’. La vicenda ha per lei delle nefaste conseguenze: sospesa dal corso. “Le altre detenute che lo seguivano con me sono andate a lavorare dopo 6 mesi, io no. È stato tremendo’’.

Altra delusione, per Anita, l’esito di un progetto di volontariato presso una parrocchia a cui ha accesso. “Dalle 9 alle 13 dovevo occuparmi delle pulizie, cosa mai accaduta. Chiedevo alla mia amica che mi consigliò di chiedere al magistrato di accedere a questa opportunità quando avremmo preso gli stracci in mano, ma non succedeva mai. Passavo il tempo inutilmente in attesa’’. Quest’esperienza le porta a dire senza indugio: “Le contraddizioni del sistema carcerario sono tante. Mancano realmente progetti per chi vuole recuperare la propria vita’’. Anche per Anita l’ancora di salvataggio si chiama L’Uomo e il Legno, con cui entra in contatto a fine 2023 tramite una conoscente. “Anche se da volontaria, qui mi sono ritemprata. All’interno della cooperativa faccio le pulizie, preparo i pasti. Tutto questo mi aiuta a non pensare al fatto che sia ancora in regime di semilibertà. Comunque scocciante, perché il trasporto è a spese mie. Tornare la sera a dormire in carcere provoca comunque fastidio”. L’esperienza a L’Uomo e il Legno permette finalmente ad Anita di guardare lontano, oltre il residuo di pena da scontare: “Vorrei continuare a fare le pulizie una volta totalmente libera, mi piace e mi distrae. Se sono nervosa devo smontare la casa per tranquillizzarmi”, afferma. Per poi concludere, tra le lacrime scese più volte nel corso della nostra chiacchierata: “Io ho mille sogni, spero di realizzarli. So bene che trovare lavoro è complicato, ma voglio sperarci e per questo continuo a resistere’’.

La cooperativa

Rita Caprio, presidente de L’Uomo e il Legno, che ha accolto Giacomo, Anita e un’altra decina di detenuti, chiarisce subito: “La cooperativa non ci guadagna con i detenuti, lo facciamo soltanto per dare loro un’opportunità, visto che stiamo parlando di persone che non hanno avuto la nostra stessa fortuna ma una vita più complicata. C’è un interscambio di esperienze sia positive che negative, tra noi e loro. Siamo tutti assolutamente sullo stesso piano’’. Quindi aggiunge: “Non vogliamo essere schiavi di un sistema, ma andare avanti per la nostra strada senza dipendere da nessuno, per questo non abbiamo mai chiesto supporto per tali progetti”. Anche per la presidente della cooperativa l’incontro con i detenuti in carcere è formativa: “Quando entro in carcere – spiega – non lo faccio portandomi dietro la paura ma con lo spirito di aiutare i detenuti ad avere uno spiraglio di luce. Anche un semplice sorriso cambia loro la giornata. Tutto ciò mi crea un benessere psicofisico. Ricordo di essermi sentita così già la prima volta in cui sono entrata in contatto diretto con questo mondo per organizzare insieme al garante regionale dei detenuti della Campania un pranzo all’interno del carcere ma fuori dalle celle. Poi, però, sentire il rumore delle chiavi che rinchiudono i detenuti, ti lascia sempre un segno nel cuore’’. Per tale motivo, chiosa, “chi è in carcere va coinvolto il più possibile in progetti come quelli che noi abbiamo. Ad esempio, al carcere Pasquale Mandato di Secondigliano, dove in comodato d’uso gestiamo un orto di due ettari di terreno curato da chi è detenuto”.

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