Gli Oscar 2024 hanno incoronato come miglior film internazionale “La zona di interesse”, diretto da un Jonathan Glazer ispiratosi liberamente al romanzo omonimo di Martin Amis del 2014. È la storia di un fuoricampo, a volte taciuto, troppo spesso dimenticato, e, per l’esattezza, di una famiglia tedesca che vive di fianco al lager di Auschwitz e che riproduce in una minuscola “zona di interesse” il proprio paradiso personale fatto di scampagnate in bici e gite in barca.

Rudolf Höss, il comandante ufficiale del campo di concentramento, di giorno esce per “lavorare” e di sera torna per leggere favole ai suoi pargoli. Sua moglie, Hedda Höss, amministra le domestiche della villa, alleva la nidiata di bambini e cura il pittoresco giardino che sembra non finire mai. Il bello è che la pellicola non li impegnerà mai davvero in un serio arco di trasformazione, né li costringerà a vorticosi movimenti narrativi. Perché è la staticità la protagonista. La staticità di abitudini, di pensiero, di vita.

Anche se il ritratto è quello di una famiglia borghese alle prese con sentimenti e problemi borghesi, Glazer insinua il ronzio del male in modo lieve, rivelandoci che i veri attori principali sono i suoni degli spari, il fumo delle ciminiere e dei forni o le grida disperate. Delle non-comparse rimuove i volti, i corpi, il sangue. Disumanizza tecnicamente, umanizzando il risultato finale. Alterna poi schermi bianchi e rossi, che ci dicono che il niente può esistere anche al cinema. Il niente che convive con la “regolarità” del male che ci ricorda quanto siano insignificanti le differenze tra noi e la coppia di coniugi tedesca. Non vedono, fanno finta di non vedere, un atteggiamento a cui noi ci occidentali ci siamo abituati forse più per assuefazione al male che per mancanza di senso umano. Ma che, ahimè, ormai dirige le nostre convinzioni.

Quello che il film sa esplorare è quel silenzio finto, quel chiudere gli occhi davanti l’incendio, quel non-fare, che se non è mai una colpa fino in fondo, adesso lo spettatore percepisce lo sia. Perché Glazer costruisce la normalità e la banalità di una coppia che è aliena dal male in cui vive, troppo aliena per giustificarsi e per redimersi, anche perché, pur non sembri, è lei anche ragione dell’eccidio. Il loro eden, come tutti gli altri, d’altronde, conserva l’esclusività che qui ha più sapore di esclusione.

Interessante poi la fotografia, e le scene montate in negativo che forse mimano l’immaginazione dei figli della coppia o forse quella del tedesco pentito o più probabilmente dello spettatore di oggi. Una ragazza si muove nei boschi e lascia una mela tra i cespugli, un’interruzione del male che diventa così visivamente lontana dalle nitide immagini precedenti, che quasi sembra un sogno, e in effetti lo è.

Emblematica, infine, la scena finale. È un conato quello che accompagna Rudolf lungo le scale del centro di detenzione di Auschwitz, che quasi si mischia a sangue. È tutto quello che ha ingurgitato che ora gli sgorga dalla bocca, e si riversa a terra, sul nulla. E in quel momento, Glazer ci riporta al 2024, alle camere a gas e a chi le pulisce, alle scarpette incastonate in teche di vetro, a scope elettriche che aspirano tutta la polvere dei corridoi.

Il flash forward, tecnica al cinema mai troppo solita, diventa pertinente e ci ripiomba con forza a oggi, a quante stragi non vediamo, a come tuteliamo la memoria del male per aiutarci, e a come, talvolta, ci richiudiamo nelle nostre zone di interesse, convinti di non essere responsabili, convinti di non essere complici. L’Olocausto era stato raccontato molte volte, quasi mai per sottrazione. E con questa prova, Glazer ci dimostra che una storia non muore mai, ma rivive da tutti gli angoli e squarci che l’hanno contaminata.

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