Per due giorni la piazza di Roma è diventata megafono del massacro in Tigray. Violenze, torture, uccisioni, raccontate dalla comunità tigrina in Italia che si è ritrovata nella capitale italiana per alzare la voce su quello che definisce un genocidio che va avanti dal 4 novembre del 2020 nella regione settentrionale dell’Etiopia. Ieri la partecipazione al corteo per la pace nel mondo, all’indomani della manifestazione di commemorazione delle vittime in Tigray, persone uccise – denunciano – per la loro etnia.

“Chiamalo genocidio ora!”, è lo slogan principale della manifestazione globale che si è tenuta il 4 novembre 2022. In ogni parte del mondo i tegaru sono scesi in campo. In Italia la manifestazione si è tenuta a Roma presso il piazzale dell’Esquilino, espandendosi poi presso alcune strade della capitale. A chiedere giustizia sono tantissimi tegaru che hanno raggiunto la capitale da ogni parte della penisola. Tra le questioni fondamentali sollevate dai manifestanti vi si sono i diritti negati alla popolazione del Tigray.

 

Molte persone sono intervenute alla manifestazione spiegando la situazione:
“Stiamo subendo un assedio a 360° che impedisce al popolo del Tigray di potersi nutrire, di poter sopravvivere. La persecuzione etnica è un reato, un popolo ha diritto di parlare la propria lingua, professare la propria fede, circolare liberamente senza confini. La prigione priva la libertà, la libertà del popolo non è negoziabile, la libertà dei popoli non si può mettere in gioco. Lo stupro come arma è un crimine contro l’umanità, la fame come arma è un crimine contro l’umanità. Negare assistenza sanitaria, cibo, acqua a un popolo non è altro che un atto disumano, è un atto da condannare”. Queste sono state le parole di Tomas Giusti, riassumendo così la catastrofe che ha colpito il suo Paese. Giusti accusa  Isaias Afewerki e il primo ministro dell’Etiopia, Abiy Ahmed, di quello che definisce un “nuovo genocidio, di questa nuova carestia fatta dall’uomo”. “Far sì che un popolo si vergogni, si nasconda, per timore della violenza solo per il suo essere è una persecuzione etnica da condannare – afferma -. Esecuzioni extragiudiziali senza aver commesso nessun reato, solo e soltanto per la tua personalità, solo per aver parlato, solo per essere nati da una donna tigrina, questo è un reato. L’attacco con i droni sui civili, l’artiglieria pesante, è un reato. Lo sfollamento forzato dei popoli, anch’esso è un reato”.

“Italia agisci ora, domani è troppo tardi”, “fermate il genocidio in Tigray”, “chiamatelo genocidio” sono stati gli appelli che hanno gridato ripetutamente i tegaru. “Siamo qui per dare voce alle vittime del Tigray, nel nostro piccolo cerchiamo di farci sentire affinché più persone vengano a conoscenza di questa spiacevole realtà, stiamo cercando di espandere la voce, aiutateci a farlo. Bisogna intervenire subito. Quanto altro ancora deve subire il popolo del Tigray?”, ha aggiunto Tzehainesc Cahsai Ghebre che ha avuto modo di intervenire, attraverso il microfono, sui diritti negati alla popolazione del Tigray. Nella regione settentrionale dell’Etiopia – denuncia la comunità dei tegaru – mancano cibo, acqua, elettricità, il carburante, i conti in banca vengono ritirati dal governo, non è concesso utilizzare i trasporti e gli aiuti umanitari sono bloccati.

Il sottofondo musicale che ha accompagnato la manifestazione in Italia è stata la storica canzone “We are the word”, che ha un legame particolare con l’Etiopia: scritta e composta dai cantanti statunitensi Michael Jackson e Lionel Richie, prodotta da Quincy Jones e inciso dagli USA (United Support Artists) for Africa, fu realizzata nel 1985 a scopo di beneficenza da un supergruppo formato da 45 celebrità della musica, per la maggior parte statunitensi e i fondi raccolti – oltre 100 milioni di dollari – furono interamente devoluti alla popolazione dell’Etiopia, afflitta in quel periodo da una disastrosa carestia.

Tra le tante persone presenti alla manifestazione di Roma c’erano anche Nighsty e Abeba, due donne che da Napoli si sono unite alle tante voci che chiedevano giustizia.
Alla domanda “cosa vi ha spinte a venire a Roma per partecipare alla manifestazione?”, entrambe hanno risposto di voler giustizia per la loro patria, vorrebbero che le persone possano vivere pacificamente senza che si facciano differenze tra etnie, che gli studenti possano continuare i loro studi e i bambini giocare tranquillamente. Vorrebbero che la serenità ritorni nel Tigray e che il massacro, che ancora oggi fa il suo corso, cessi definitivamente.

Abeba è una testimonianza di come è iniziata la guerra in Tigray, lei stessa si trovava sul posto quando la guerra ebbe inizio. “Mi trovavo lì – racconta – già nel 2019, precisamente a Makallè (capitale del Tigray), sono tornata in Italia a gennaio del 2021. La guerra è iniziata improvvisamente, ho sentito dei forti bombardamenti durante la notte e ovviamente ho avuto paura, ho cercato di nascondermi. All’improvviso l’energia elettrica ha smesso di funzionare, così come i telefoni, internet, l’acqua e la tv”, racconta con tristezza ricordando quei momenti che l’hanno segnata. “Sono riuscita a lasciare il Tigray e a raggiungere Addis Abeba (capitale dell’Etiopia) con l’aiuto della Croce Rossa. Una volta arrivata lì, mi sono messa in contatto con l’ambasciata italiana in Etiopia, dato che sono una cittadina italiana. Mi hanno detto di attendere affinché trovassero un volo che mi riportasse in Italia, quando sono riusciti a trovarlo mi hanno chiamata comunicandomi che avrei dovuto subito fare il rientro in Italia. Mi fa male vedere il mio paese ridotto in quel modo. Sono due anni che la mia patria viene bombardata e il mio popolo sta subendo un genocidio ingiustificato, le persone perdono la vita solo per la loro appartenenza etnica. Ho un vuoto dentro, il mio cuore è a pezzi come il mio paese”, racconta Abeba ancora in stato di shock mentre le lacrime scorrono sul suo viso.

Anche Nighsty ci parla delle condizioni attuali in cui si trova la sua patria: “Il mio paese sembra essere dimenticato da tutti, è una guerra che i politici fingono di non vedere e non è assolutamente giusto. Non esistono guerre di serie A e guerre di serie B, bisogna dare a tutte le dovute attenzioni e non concentrarsi solo sulla guerra più vicina all’Italia.
Nel mio paese sono state bombardate le strutture presenti sul territorio: le scuole, ad esempio, dove il materiale scolastico è stato bruciato. Negli ospedali hanno portato via tutto. Hanno distrutto le fabbriche, e non solo. Hanno preso di mira anche i luoghi di culto”.  Continua il suo discorso entrando nella sua storia personale: “Il governo ha interrotto le linee telefoniche e io non sento la voce di mia sorella da tantissimo tempo, non so in che condizioni si trovi, non so nemmeno se è ancora viva. Il mio primo figlio è chiuso in casa, non può lavorare. Se lo vedessero in giro non oso immaginare cosa potrebbe succedergli. Lui è padre: immaginate com’è vedere i propri figli piangere per la fame, immaginate di essere un genitore che ha la forza e la buona volontà di lavorare ma non può esercitare il suo lavoro per le sue origini, come dovrebbe sentirsi?”.

“Mio figlio più piccolo – racconta poi Nighsty – lo sequestrarono per più di due mesi, lo portarono in una specie di campo di concentramento dove all’interno c’erano altre persone con le sue stesse origini, lì sono stati picchiati e torturati, e questo non colpisce solo la mia famiglia ma tantissime altre famiglie nel Tigray. Non dobbiamo vergognarci delle nostre origini, siamo fieri di essere del Tigray!”. Nighsty si prende un po’ di tempo per asciugarsi le lacrime e bere un sorso d’acqua, poi continua a parlarci di tante persone che perdono la loro vita anche a causa dell’assenza di medicine, persone affette da diabete o da altre patologie che con l’aiuto di farmaci si potrebbero curare, ma a causa degli aiuti umanitari bloccati vanno incontro alla morte.

Nei giorni scorsi è stato ufficialmente raggiunto un accordo di pace fra l’Etiopia e il Tigray. Lo ha annunciato l’Unione Africana (organizzazione intergovernativa che comprende tutti i paesi del continente riconosciuti dalla comunità internazionale) al culmine dei negoziati cominciati lo scorso 25 ottobre in Sudafrica con la mediazione degli Stati Uniti.

Le truppe del governo etiope, con l’appoggio dell’esercito eritreo, sono in guerra del 2020 con i ribelli del Tigray. Secondo quanto ha riferito l’ex presidente nigeriano Olusegun Obasanjo –  tra i mediatori nei negoziati – l’accordo prevede il ripristino dell’invio di aiuti umanitari al Tigray. Sarà l’Unione Africana – ha detto – a osservare se gli accordi troveranno applicazione.

Abbiamo parlato  dell’accordo di pace con le due donne tegaru di Napoli presenti alla manifestazione di Roma.  “Non credo a nessun accordo di pace, non si può chiedere la pace e continuare a bombardare il paese”, risponde Nighsty. “Nelle manifestazioni ci appelliamo alle autorità italiane e internazionali chiedendo di intervenire affinché i colpevoli vengano processati presso la Corte internazionale di Giustizia, solo così può ritornare la serenità nel paese”, ha aggiunto Abeba appoggiata dai suoi compaesani. I Tegaru, dunque, sono preoccupati per il loro paese. In Tigray la stampa locale ha riferito di violenze e bombardamenti anche contro i civili avvenuti persino durante i colloqui di pace. Tra le vittime anche dei bambini.

“Sembra di essere tornati indietro negli anni, le guerre sono la dimostrazione che non si impara nulla dalla storia precedente. La loro sete di potere sta causando un vero e proprio massacro, uno sterminio che deve assolutamente finire. Il Tigray sta vivendo l’orrore dell’olocausto che tanti anni fa colpì gli ebrei. Cambiano i personaggi della storia ma la motivazione resta la stessa. Non si può morire per le proprie origini”, Nighsty conclude così il suo racconto.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here