“Discorso sulle origini e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini” è un saggio pubblicato in Francia nel 1755. Citando Giulio Preti, con questo scritto politico il filosofo svizzero Jean-Jacques Rousseau “ha avuto il merito di aver formulato chiaramente, sia pure su un piano astrattamente politico, l’idea della democrazia, e di avere mostrato come con la proprietà privata cominci l’infelicità umana”.
Nel 1754, fu il concorso bandito dall’Accademia di Digione ad ispirare lo scrittore. Quell’anno l’Accademia avrebbe dato un premio a chi avesse saputo trattare meglio il tema “quale sia l’origine della disuguaglianza fra gli uomini e se sia fondata sulla legge naturale”. In quell’occasione Rousseau non vinse, ma l’anno successivo pubblicò il suo scritto e nel 1762 scrisse il “Contratto Sociale”. Si potrebbe dire che il “Contratto Sociale” non è altro che la risposta ad un problema posto nel saggio “Discorso sulle origini e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini”.
Nel “Discorso” Rousseau cerca di definire con precisione i termini del problema dell’eguaglianza o dell’ineguaglianza tra uomini. E per farlo inizialmente segue le orme del suo predecessore Thomas Hobbes, filosofo materialista, nonché precursore del Giuspositivismo. Il filosofo britannico analizzò la questione partendo dallo stato di natura, ossia “quella condizione in cui sarebbero vissuti gli uomini anteriormente alla formazione della società civile”. Tuttavia, Hobbes giunse alla conclusione che allo stato di natura gli uomini sono soggiogati dall’egoismo, e per questo si combattono l’un l’altro per sopravvivere.
Al contrario Rousseau credeva che in natura fosse infusa la volontà divina. E questa volontà divina era ritenuta pura, in quanto fondava i suoi valori sul bene e sul bello. Criticando Hobbes, Rousseau scrisse: “Egli pretende che l’uomo sia naturalmente coraggioso e non desideri altro che attaccar briga e combattere. Al contrario un filosofo illustre pensa, e lo afferma anche Cumberland e Pufendorf, che non ci sia niente di più timido dell’uomo nello stato di natura, che egli sia sempre tremebondo e pronto a scappare al primo rumore che lo colpisca, al minimo movimento che egli percepisca”.
Secondo Rousseau, dunque, l’uomo allo stato di natura è fondamentalmente buono: è stata la civiltà che lo ha guastato e corrotto. “Guardiamoci dal confondere l’uomo selvaggio con gli uomini che abbiamo sotto agli occhi – afferma – . La natura tratta gli animali abbandonati alle sue cure con una predilezione che sembra indicare quanto essa sia gelosa di questo diritto. Il cavallo, il gatto hanno di solito più forza, più vigore quando sono nelle foreste che quando sono nelle nostre case: diventando domestici perdono metà di quei vantaggi, e si direbbe che tutte le nostre preoccupazioni di trattare bene e nutrire bene quegli animali non facciano altro che imbastardirli. E lo stesso succede anche con l’uomo: diventando socievole e schiavo diventa debole, timoroso, strisciante e il suo modo di vivere molle ed effeminato finisce per snervare insieme e la sua forza e il suo coraggio.”
Nello specifico, secondo il pensiero politico rousseauiano, ad allontanare l’uomo della stato di natura è stata la nascita del linguaggio, dell’agricoltura, della metallurgia ed, infine, della proprietà privata. E quest’ultima è la causa che crea la disuguaglianza sociale.
La civiltà dunque “è la prova funesta che la maggior parte dei mali è opera nostra e che li avremmo evitati quasi tutti conservando la maniera di vivere semplice, uniforme e solitaria che ci è stata prescritta dalla natura”. Inoltre, con una nota di sarcasmo Rousseau afferma che “si farebbe molto facilmente la storia delle malattie umane seguendo la storia della società civile”.
In conclusione, parlando dell’opera, il filoso svizzero dice: “Da questa esposizione si deriva che la disuguaglianza, la quale è quasi nulla nello stato di natura, trae forza e incremento dello spirito umano e diviene alla fine stabile e legittima a opera dell’istituzione della proprietà e delle leggi”.
La posizione ferma, dunque, non lascia spazio ad equivoci: la causa dell’infelicità dell’uomo risiede nella civiltà. Ma dall’autore non vengono fornisce delle soluzioni per superare questa condizione avversa. Per far fronte a questo paradosso bisognerà aspettare il 1762, anno della pubblicazione del “Contratto sociale”.
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