“Ora mi sono trasformato nel distruttore dei mondi, l’annientatore delle creature”, disse il celebre fisico Robert Oppenheimer, nel corso di una conferenza stampa tenuta a Los Alamos, nel Nuovo Messico, luogo in cui era situato il laboratorio di ricerca del Progetto Manhattan (quello in cui si lavorava allo sviluppo della bomba atomica, per intenderci). Era il 16 aprile 1945, Con quella frase il fisico statunitense di origine ebraica-tedesca citava la Bhagavad Gita, uno dei testi sacri più importanti dell’induismo. Per l’esattezza si tratta del 32esimo verso dell’undicesimo capitolo della Bhagavad Gita, chiamato “Vishvarupa Darshana Yoga” o “Lo Yoga della visione della forma universale”.

Il verso menzionato narra il momento esatto in cui Arjuna, un valoroso guerriero della famiglia dei Pandava nell’epica indiana Mahabharata, chiede a Krishna, importante divinità induista, nonché ottava incarnazione del dio Vishnu, una dimostrazione d’amore nei suoi confronti. A quel punto, dopo aver accolto le richieste, “il beato tra i beati, si rivelò ad Arjuna nella sua sua suprema forma divina, attraverso le sue manifestazioni, cioè come molti in uno: dalle molte bocche, dai molti occhi, dalle molte prodigiose visioni, dai molti divini ornamenti, dalle molte armi divine, recanti ghirlande e vesti divine”.

Eminentissimo conoscitore delle tradizioni spirituali e filosofiche, Oppenheimer utilizzò il versetto per catturale l’attenzione dell’opinione pubblica e sollevare due questioni importanti: il potere distruttivo della bomba atomica e la responsabilità etica e morale degli scienziati. Si tratta dunque di un testo che tratta di diversi temi come la guerra, il dovere (dharma), l’azione disinteressata (o karma yoga), il conetto di saggezza e conoscenza, il concetto di sé e dell’anima, il cammino della devozione, la conoscenza divina, l’etica; temi che nel corso di lunghissimi secoli, per vie traverse, si avvicineranno molto allo scrittore danese Soren Kierkegaard. Ma facciamo un passo indietro e domandiamoci: cos’è per esattezza la Bhavagad Gita?

Come detto in precedenza, la Bhagavad Gita è uno dei testi sacri più importanti nell’induismo. Composta da 18 capitoli, l’opera è un caposaldo della dottrine filosofiche e spirituali orientali ed è parte integrante del Mahabharata, un’antica epica sanscrita dell’India, la cui versione completa conta oltre 200.000 versi o sloka (l’Iliade conta 15.000/18.000 versi, mentre l’Odissea 12.000/15.000). La data di pubblicazione è ignota, anche perché il testo è stato tramandato prima in forma orale e poi in forma scritta. Tuttavia si ipotizza che il poema epico sia stato incluso nel Mahabharata nel V secolo a. C. circa.

Tra i numerosi commentatori che hanno interpretato, spiegato e approfondito i versi e i concetti espressi all’interno della Bhagavad Gita, vi sono Adi Shankara, filosofo indiano di spicco vissuto nel VIII secolo; Ramanuja, celebre filosofo e teologo del XII secolo che scrisse il suo commentario intitolato “Sri Bhashya”; Swami Vivekananda, santo e filosofo indiano del XIX secolo che ha un commentario intitolato “The Bhagavad Gita. The Song of God”. Il commentario di Adi Shankara, noto con il nome di “Gita Bhashya”, che segue la scuola di pensiero dell’Advaita Vedanta (che considera la realtà ultima come una sola e non duale), è con molta probabilità il commentario più influente.

Il tessuto narrativo dell’opera si sviluppa sotto forma di dialogo tra il principe guerriero Arjuna e Krishna, guidatore di cocchio e consigliere di Arjuna. Sullo sfondo, Kurukshetra, il campo di battaglia in cui sono schierati da una parte di Kaurava e dall’altra i Pandava.
La tecnica narrativa utilizzata, media res, catapulta il lettore direttamente sul campo di battaglia, senza fornire introduzioni, senza dare spiegazioni dettagliate del contesto, senza mostrare in alcun modo gli antefatti che si possono trovare soltanto nella Mahabharata.

Era già stato menzionato il numero di versi della Mahabharata. Nonostante ciò, seppure contenga trame e sotto trame, si potrebbe dire in linea di massima che la Mahabharata narra la storia della guerra tra i fratelli Pandava (tra questi vi è Arjuna) contro i loro cugini Kaurava per il regno di Hastinapura. La Bhagavad Gita, appunto, inizia nel bel mezzo della guerra tra Pandava e Kaurava.

Intrisa di tradizioni e concetti induisti, l’opera fa riferimento ad alcuni sistemi filosofici e tecniche ascetiche. Tra questi, troviamo: la Vedanta, che espone la dottrina monistica dell’”uno-Tutto” e della ‘non dualità’ (advaita) per cui ogni concetto di pluralità insito nel mondo fenomenico è fallace e fondato sull’illusione; lo yoga, disciplina psico-fisiologica indiana basata su una vasta gamma di tecniche ascetiche, che in questo caso sono necessarie per raggiungere l’unità con il divino; il Dharma, che, nella sua accezione fondamentale, indica la legge religiosa e morale e l’osservanza dei doveri a essa inerenti; il concetto di Atman, principio di individualità personale contrapposto alla materia, al corpo e alle funzioni cognitivi e concetto di Brahman, la realtà ultima o il principio divino; e Bhakti, ossia la devozione e l’amore per il divino.

C’è da sottolineare che Arjuna, all’inzio della Bhagavad Gita, è sopraffatto dall’emozione e dalle conseguenze morali che potranno scaturire dalle sue azioni, pertanto, il principio filosofico cardine che emerge dal poema è quello del Dharma, che evidenzia l’importanza del dovere e dell’ordine universale: trovandosi davanti al campo di battaglia, di fronte al nemico, l’eroe è chiamato a svolgere la sua missione, pertanto non può avere dubbi e deve avere la mano pronta per colpire. Per questo, Krishna, la guida spirituale, parla ad Arjuna delle tre guna con l’obiettivo di aiutarlo a prendere una decisione e per far sì che egli possa comprendere la natura delle realtà, il grande meccanismo universale e la dinamica delle azioni umane. In questo caso Kierkegaard probabilmente avrebbe detto.

Così la Bhagavad Gita ci mostra come da Arjuna a Robert Oppeneheimer, tutti prima o poi siamo chiamati al dovere, tutti siamo chiamati a scegliere tra questo o quello, ci ricorda che per tutti giunge prima o poi l’ora dell’aut-aut. Dunque è il Dharma la forza motrice del racconto, è il Dharma che esercita un ascendente sul lettore che, indeciso tra questo o quello, nella sua stanza brancola nel buio delle incertezze della vita e trova rifugio nella celebre opera che precede di gran lunga Aut-Aut, il capolavoro esistenzialista del filosofo danese.

È a Kurukshetra, allegoria del campo di battaglia interiore dell’uomo, che ognuno di noi fa le scelte più significative. E per questo Krishna spiega ad Arjuna (ma anche al lettore) come le tre guna (Sattvas, Rajas, Tamas) influenzano le menti e le azioni delle persone: le tre guna determinano la motivazione, l’atteggiamento e l’impegno che le persone ci mettono per perseguire i loro obiettivi.

Delle tre guna il frutto dell’azione della Sattvas è chiamato bene; quello della Rajas, dolore, insoddisfazione, inquietudine; quello della Tamas ignoranza, stupidità, inerzia. Solo coltivando la Sattva guna, dice Krishna, è possibile adottare delle scelte basate sulla giusta comprensione, senza incappare nelle maglie dell’egoismo e dell’illusione. In conclusione, si può affermare che per la sua portata, la Bhagavad gita è un testo che ha una visione che comprende e integra tutti gli aspetti dell’esistenza umana, come il corpo, la mente, lo spirito, l’individuo e l’universo nel suo insieme. Un testo completo che abbraccia e integra tutte (o quasi) le dimensioni dell’esistenza umana, un testo che valica i confini del tempo e dello spazio e che ancora oggi fa parlare di sé.

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